Alla finale di Coppa Davis va in scena la Belle epoque (un po' sciupata) del tennis europeo
Sembrava essersi tolto la scimmia dalla spalla nel 2013. Vincendo Wimbledon, in finale contro un Novak Djokovic lontano dalla versione imbattibile di quest’anno, settantasette anni dopo Fred Perry, lo scozzese Andy Murray aveva riportato il nome di un britannico nell'albo d'oro dei Championships. Ma la leggenda del tennis non l'hanno fatta soltanto le prove dello Slam, ma anche il torneo per nazioni più vecchio del mondo, la Coppa Davis. Unica competizione a squadre in uno sport individuale per eccellenza, la Davis non raggiunge, in genere, i vertici tecnici dei major (anche perché non sempre i più forti la giocano) ma è famosa per l'intensità degli incontri. Giocatori mediocri nei tornei Atp in Davis sono autori di performance spesso indimenticabili. Come il nostro Paolo Canè, tanto talentuoso quanto discontinuo, che nel 1990 sconfigge al quinto set Mats Wilander eliminando la fortissima Svezia (il quinto set era stato rinviato a lunedì mattina, ero a scuola, ma avevo convinto il prof a vederla tutti assieme in sala tv anziché fare lezione). O come John McEnroe e Mats Wilander, che nel 1982 danno vita a un match di oltre sei ore, vinto da SuperMac per 9-7, 6-2, 15-17, 3-6, 8-6 (all'epoca non c'era il tie-break negli incontri di Davis). O come il Brasile del 1992 prima di Guga Kuerten (il più grande tennista brasiliano della storia sarebbe esploso soltanto nel 1997 vincendo il Roland Garros) che, approfittando dello scatenato tifo locale, distrugge a Maceiò l'Italia di Omar Camporese, Stefano Pescosolido, Paolo Canè e Diego Nargiso, sulla carta molto più forte. Lo stesso Fabio Fognini ha spesso trovato in Davis quella concentrazione che a volte gli manca in singolare.
In Davis ci sono quattro singolari e un doppio. Come a volte è capitato, ad esempio nel 1975 con Bjorn Borg o negli anni Ottanta con Boris Becker, può essere vinta da un solo giocatore che si aggiudichi sempre i due singolari e il doppio. Roger Federer negli anni d'oro avrebbe probabilmente potuto provarci. Invece l'ha vinta nel 2014, in coppia con Stan Wawrinka, già vincitore di Slam. Adesso Andy Murray, numero due al mondo, ad abissale distanza dal dominatore Djokovic, è chiamato a vincere praticamente da solo la Davis, che la Gran Bretagna non si aggiudica dal 1936 (c’era il solito Fred Perry), in palio nella finale a Gand contro il Belgio. Giocherà anche il doppio in coppia con il fratello Jaime: ben poco aiuto gli può venire dal secondo singolarista, Kyle Edmund, n.99 al mondo. Non si tratta peraltro di un compito impossibile: i belgi giocano in casa, è vero, e il fattore campo è importante nella Davis, ma possono opporre solamente David Goffin (numero 16 al mondo) e il doppista Steve Darcis (il secondo singolarista, Ruben Bemelmans, è n.107 del ranking), mentre Jaime Murray è un ottimo doppista. Però Andy ha spesso mostrato una certa fragilità caratteriale. Era riuscito a vincere Wimbledon (e l'anno precedente le Olimpiadi e gli Us Open) quando era allenato da un grande campione del passato (e grande motivatore) come Ivan Lendl. Quest’anno è diventato numero due grazie alla grande continuità di risultati (nonostante i ben pochi acuti).
[**Video_box_2**]Al complesso polifunzionale Flanders Expo di Gand va così di scena la Vecchia Europa, quella vecchia per davvero. Basta guardare agli interpeti che si confronteranno, ai loro volti d'antan. Prendete Goffin per esempio, con quella chioma bionda e un fisico sgraziato, ben lontano dalla tonicità muscolare degli sportivi contemporanei). Oppure prendete Murray, il rosso che sa di Highlands e che sembra un Braveheart titubante. Facce da Europa del nord di primo Novecento, di una Belle epoque lontana.
Il Foglio sportivo - IL RITRATTO DI BONANZA