Disfatta Real
Il cronometro segna il 74esimo minuto di gioco o giù di lì. Il numero 7 con la maglia bianca alza gli occhi al cielo, li rivolge prima al suo stadio, ai suoi tifosi. Resta così qualche secondo, poi getta uno sguardo severo, arrabbiato verso la sua panchina. Scuote la testa desolato, allarga le braccia e si dirige verso il centro del campo. Lo stadio è il Santiago Bernabéu di Madrid, quella maglia è del Real, quel numero 7 è Cristiano Ronaldo e quello sguardo è diretto al suo allenatore, Rafa Benítez.
Il 74esimo è il minuto nel quale Luis Suárez ha segnato il quarto gol del Barcellona il 21 novembre 2015. E la stagione del Real Madrid è già una disfatta. Nonostante il terzo posto e i 24 punti, frutto di 7 vittorie, 3 pareggi e due sconfitte. Quello 0-4 in casa contro il Barça nel Clasico e quel meno 6 in classifica dagli azulgrana sono già un fallimento per gran parte della tifoseria.
Una distanza dalla vetta resa ancor più difficile da sopportare dopo l’eliminazione dalla Copa del Rey a tavolino causata dalla decisione di Rafa di far scendere in campo nell’undici titolare il russo Denis Cheryshev che era squalificato. Una leggerezza che ha fatto infuriare gli ultras e gran parte della dirigenza e che è stata giustificata con un banale: “Non sapevo, non me lo avevano notificato”.
Il tecnico non deve disperarsi però. In questo primo semestre al Real può comunque fregiarsi di un record. Mai nessuno era infatti “riuscito a farsi malvolere così in fretta dai giocatori e dai tifosi dei Blancos”, ha detto alla televisione argentina l’ex giocatore-allenatore-dirigente del Real, Jorge Valdano.
Rafa Benitez ai tempi dell'Osasuna. La foto è diventata virale venerdì dopo l'estromissione dalla Copa del Rey
Non male per uno come Benítez nato e cresciuto calcisticamente a Madrid, sponda giusta, quella Real, e divenuto allenatore proprio nella cantera dei Blancos, per poi andare a vincere altrove. A Valencia dove tra il 2001 e il 2004 conquistò due Liga e una Coppa Uefa, e poi a Liverpool tra il 2004 e il 2010 dove riesce a portare in bacheca una FA Cup, la coppa nazionale inglese, oltre a una Champions League. Ma i fasti passati contano poco in una piazza come Madrid. Quello che conta è vincere e farlo nelle occasioni giuste. Perché “ci sono quattro cose importanti nel calcio spagnolo: chi vince il campionato, chi sta davanti tra Real e Barcellona e il Clasico di andata e quello di ritorno”. Parola di Santillana, uno che l’ambiente lo conosce, che con le Merengues ha giocato 461 partite nel massimo campionato e segnato 186 gol, e sa bene cosa vuol dire indossare la camiseta blanca. Qualcosa che conosce bene l’ex tecnico tedesco delle Merengues Jupp Heynckes, che venne esonerato nel 1998 dall’ex presidente Lorenzo Sanz nonostante la vittoria della Champions League, per aver chiuso la stagione a undici punti dal Barça e aver perso due Clasici.
Vincere, certo, e nelle occasioni giuste, ma serve altro. Serve il gioco, il bel gioco. Quello made in Real.
A giugno la dirigenza era certa di aver fatto la scelta giusta ingaggiando Benítez. Era certa che fosse il tecnico per tornare a vincere: “Rafa conosce tutto del Real, ha vinto tanto lontano da qui. Rimane però un hombre della cantera, uno dei migliori allenatori al mondo, respira calcio, professionalità e madridismo”. Così l’aveva presentato il 3 giugno scorso il presidente Florentino Pérez. “Sei nel club più prestigioso e titolato del mondo, nessuno più di te può sapere chi siamo e cosa rappresentiamo, con te iniziamo una nuova èra. Benvenuto”. Un’euforia durata poco, sia per i mugugni dello spogliatoio ancora legato a Carlo Ancelotti, il tecnico italiano che aveva fatto vincere alla squadra la decima Champions League della storia, sia, soprattutto, per la bontà del gioco espresso. “Il Real quest’anno? Se va avanti così lo fanno giocare in Francia la prossima stagione”, ha ironizzato l’attore comico spagnolo Flipy, grande tifoso dei Blancos. E giocare in Francia o meglio alla francese non è un complimento da quelle parti. Vuol dire giocare palla lunga e rincorrere. Equivale a non giocare, cercare l’azione personale, diventare una somma di singoli senza la benché minima cognizione di squadra. E’ l’opposto di ciò che è stato il Real Madrid, la negazione di un modo di giocare che pur cambiando moduli, allenatori e interpreti non ha mai prescisso da tre regole basilari: giocare basso, giocare di prima, giocare bene. Un mantra che non viene recitato o cantato, ma viene insegnato in campo, perseguito come obiettivo. Qualcosa a cui i tifosi si sono abituati a tal punto da riuscire a fischiare la squadra, se ciò non avviene. Indipendentemente dai risultati ottenuti.
E’ l’idea di essere Galacticos. E’ prima di tutto abitudine antica, tradizione e continuità, una sorta di fede. Perché se il Barcellona è identità e autonomia, è appartenenza e Catalogna, la squadra alternativa al franchismo, dell’avanguardia, di Cruijff e del gioco totale alla catalana, il Real è centralità, capitale culturale e politica, è Spagna unita, anzi è Spagna, punto, ma soprattutto Argentina. E’ calcio delle origini in senso sudamericano, garra a centrocampo, ossia un mix di impegno, perseveranza e cattiveria agonistica, e spazio all’attacco, ai tocchi immediati e ravvicinati dei Di Stefano-Puskas-Gento. E’ l’insegnamento del River Plate degli anni Quaranta, quelli della Máquina, la macchina del calcio, del quintetto d’attacco Muñoz-Laustau-Labruna-Moreno-Pedernera.
E’ l’idea di calcio che portò in Spagna Alfredo Di Stefano e che l’allenatore delle ultime due Coppe dei Campioni del quinquennio magico dei Blancos (cinque successi continentali in cinque anni), Miguel Muñoz, mise a regime e impose quasi fosse un comandamento a tutti i suoi successori. Gioco offensivo e a un tocco, di prima, al massimo a due, stop e passaggio, il dribbling consentito solo alle ali, quelle che dovevano creare la superiorità numerica in attacco.
[**Video_box_2**]Un’applicazione corale, “dove erano necessari piedi buoni e cervello fino”, disse al quotidiano sportivo di Madrid Marca qualche anno dopo il suo ritiro Francisco Gento, esterno sinistro e capitano del grande Real. “Di Stefano giocava palla a un tocco, sempre. Per questo era amato come nessuno dai tifosi. Era elegante e raffinato. E’ stato forse l’unico che in campo non solo ha segnato un’epoca, ma ha addirittura creato un modo di giocare, il modo Real”. Semplicità e creatività al servizio dei compagni, “e la gente, anche chi non lo ha mai visto giocare sa che è questo a cui deve ambire la squadra. E’ per questo che Cristiano Ronaldo è amato, mentre Zinedine Zidane idolatrato. Zizou era la bellezza del calcio trasportata ai tempi moderni, Cristiano Ronaldo un fuoriclasse, ma senza quella maestosità di chi sa fare sempre la cosa più utile e più semplice; quella era materia di Zidane”.
Semplicità e bellezza. E’ questa la condicio sine qua non per farsi amare al Bernabeu. “Ma quella sugli spalti è gente abituata bene, gente che crede di meritare il meglio perché qui e non altrove si è fatta la storia del calcio europeo”. E’ la sintesi di uno stadio intero, di una identità sportiva, quella rilasciata da Alfredo Di Stefano pochi giorni dopo la vittoria della decima Champions League, nel giugno del 2014 alla televisione delle Merengues. Abitudine, certo, ma soprattutto “palato fine, perché al Real è sempre valsa una sola regola: giocano i migliori, i più bravi, indipendentemente dal modulo: sono i giocatori a farlo, è sempre successo questo”, ha detto a Marca Fernando Hierro, capitano dei Blancos negli anni Novanta.
E’ in questo che ha toppato Benítez. Lasciare in panchina i campioni, alternarli, adattarli a un modulo che ne limita l’estro e l’iniziativa alla ricerca di un equilibrio mai ancora trovato.
E’ nel gioco che Benítez ha tradito una tifoseria, una squadra, il mondo Merengues. Perché giocare di rimessa, difendersi e contrattaccare, palla lunga e che pedalino Cristiano Ronaldo e Gareth Bale, sperando che Karim Benzema si inventi la zampata per segnare è un affronto al pubblico, “è sputare sulla storia, su di un’identità, è un atto di tradimento alla camiseta blanca”, ha detto nel corso di un’intervista alla radio ufficiale del club José Martínez Sánchez, per tutti solo Pirri, uno che in carriera ha vestito quella maglia per 417 volte solo nella Liga, vincendo dieci campionati e alzando la Coppa dei Campioni nel 1966.
Perché il Real Madrid di quest’anno è un’immagine sfocata di quello che fu, l’antitesi di quello di Carlo Ancelotti che conquistò la Decima nel 2014, nemesi di quello galactico di Vicente Del Bosque che conquistò la Champions League nel 2002 a spese del Bayer Leverkusen dopo aver annichilito il Barcellona nelle semifinali.
A forza di contropiede, attendismo e ripartenze Benítez ha sovvertito la tradizionale tendenza delle Merengues di controllare la partita, di vincerla tramite l’imposizione del proprio gioco, palla al piede e occupazione della metà campo avversaria.
E non puoi farlo a Madrid. Questione di storia, di uomini, di tendenza al comando. Questione di 32 campionati vinti, 19 trofei internazionali e dozzine di altre coppe nazionali. Questione di filosofia, o meglio necessità: “Perché los mejores hanno solo un compito: dimostrare a tutti di esserlo davvero e per farlo devono imporlo agli avversari. Devono eliminare qualsiasi dubbio: vincere è dominare, è imposizione della propria storia. Il resto non conta, il resto non contribuisce ad aumentare nè il rispetto, nè tantomeno la gloria”. Parola di Santiago Bernabéu, il presidente più vincente della storia del Real, anzi El Presidente come viene chiamato dalle parti di Chamartín – il quartiere dove sorge lo stadio che porta il suo nome –, quello che ha reso i Blancos la squadra più forte d’Europa. Le parole che Bernabéu pronunciò il giorno del suo ultimo scudetto da numero uno del Real nel 1978, furono un lascito testamentale – morì infatti dopo poche settimane durante il Mondiale in Argentina –, un monito ai suoi successori: così doveva continuare a giocare il Real Madrid, perché questo era diventato il suo Dna.
Le critiche, lo scetticismo, i cori che chiedono l’esonero di un allenatore che è comunque al terzo posto della Liga e agli ottavi di Champions League nascono da qui, da una tradizione non rispettata, nonostante Benítez sia una creatura di questa storia, nato e cresciuto nella società.
Rafa ha dimostrato testardaggine e carattere, convinzione quasi autolesionista nella sue scelte, nella sua idea di squadra e di gioco. Ma proprio in questa determinazione a non voler mutare, ha trovato la sua dannazione. Perché sfidare uno stadio intero, non capire e non voler superare i limiti di gioco di una squadra che avrebbe tutto per vincere o comunque per giocarsela con il Barcellona eccezionale di questa stagione, è qualcosa che a Madrid non può essere perdonato.
Benítez non è ancora riuscito in quello che prima di lui grandi allenatori come Miljan Miljaniç, Fabio Capello, José Mourinho e Carlo Ancelotti fecero. Cambiare, adeguarsi almeno in parte a una storia che al Real è macigno, esaltazione e dittatura. Tutti loro, chi più e chi meno, si trasformarono, mutarono per proseguire e perseguire un certo modo di vivere e vedere il calcio.
Un problema però non solo tecnico o calcistico, un limite soprattutto caratteriale, di indole. Perché è in questo che l’attuale tecnico dei Blancos pecca rispetto ai suoi predecessori. Essere, per sua stessa ammissione, professore a cui piace “lavorare e insegnare, spingere la gente a migliorare”, invece che generale, uomo al comando. Una differenza importante, decisiva, che può esaltare un tecnico in piazze medio grandi, come Valencia e Liverpool, ma che limita le possibilità di successo nelle grandi squadre.
[**Video_box_2**]Il perché lo ha descritto magistralmente Carmelo Bene, uomo di teatro e di cultura in primis ma anche grande appassionato e cultore di calcio: “E’ ora di finirla di dire che tutti possono farcela. C’è un limite, un discrimine, soprattutto per gli allenatori. E’ qualcosa di umano, terribilmente umano, che li screma e li distingue: sono gli attributi. E non parlo di testicoli, parlo di spirito, parlo di capacità di capire, di intendere il pallone. C’è chi lo intende bene, che farà grandi cose in provincia, chi anche in città, chi mai lo farà però nelle grandi squadre”. Era il 1997 e dallo studio di Zona, programma calcistico trasmesso in chiaro da Tele + (la prima pay tv italiana), il maestro stava polemizzando contro Luigi Simoni, allora allenatore dell’Inter, considerato da Bene, inadeguato, non per capacità, ma per “polso” a far vincere l’Inter. “I primi sono maestri, i secondi anche, ma di carattere forte, i terzi sono superuomini. E’ qui che differiscono gli allenatori. Per vincere in squadre importanti non si deve insegnare, si deve comandare. I caporali comandano. Uniscono la conoscenza della tecnica e l’ignoranza del potere: è per questo che vincono. Così sono fatti i vincenti. Gli altri, onesti e brillanti lavoratori, nelle grandi squadre faranno la fine dei fessi. Sempre che non si trasformino in esseri dispotici e cannibali. Ma i buoni maestri sono sempre stati fessi di natura”.
Benítez è una gran maestro, è stato eccezionale a Valencia e a Liverpool, società importanti, ma seconda e prima periferia nella geografia pallonara. Ha fallito altrove: all’Inter, al Chelsea (nonostante un’Europa League, ma eliminato ai gironi di Champions e terzo in Premier League) e al Napoli. Al Real ha ancora tempo per diventare “dispotico e cannibale”, sempre che i tifosi non convincano il presidente Florentino Pérez a cambiare idea e a esonerarlo.