Caro Galliani, se lo lasci dire, dopo trent'anni è tempo che se ne vada
Gentile Adriano Galliani, dovrebbe dimettersi. Sarebbe un bel gesto. Come direbbe il poeta, è tempo di partire. Ho fede rossonera dall’autunno del 1956: a dieci anni grassoccio sgambettavo sui campi pericolosamente sconnessi dell’oratorio della chiesa di Santa Maria delle Nevi, i miei eroi in figurina erano Gipo Viani e Cesarone Maldini e Gigi Radice e Nils Liedholm e Juan Alberto Schiaffino e Ernesto Cucchiaroni e un ragazzo di venti anni, Gastone Bean, che veniva dalla primavera, eppure vinse la classifica cannonieri e ci dette una robusta mano a vincere il sesto scudetto. A dieci anni anni nemmeno sai che esiste anche un presidente, della grandezza di Andrea Rizzoli, a cui si deve Milanello, ebbi contezza tempo dopo. Fra qualche mese saranno dunque sessanta anni, roba da nozze di diamante, meglio che una donna o un amico: mai un tradimento, mai un corno, nemmeno con il pensiero. Sessant’anni da tifoso sono però un lampo rispetto ai trenta da lei trascorsi alla guida della società, un’èra geologica. Alex Ferguson dopo ventisei anni ha mollato, lei ancora no. Quando la inquadrano in tribuna allo stadio io vedo solo l’irradiarsi del crepuscolo, il sunset.
Non facciamo piccinerie. Non scarichiamo colpe e responsabilità sull’allenatore: che fosse mediocre, sergente senza grandi fantasie, lo si sapeva già. Il suo rigore, la serietà, la lealtà non si discutono, la sua professionalità nemmeno, ma questo non fa che aggiungere frustrazione a frustrazione.
Quando si cambiano tre allenatori in due stagioni, il problema non è più la panchina ma la leadership: è il giocattolo che si rompe, la visione del calcio che va in frantumi. Oggi dobbiamo dirci onorati di stare in classifica tra Sassuolo ed Empoli, fior di squadre che giocano un calcio brillante: ma non possiamo non pensare alla Juventus che stava otto, nove punti sotto e oggi otto sopra, corre di nuovo e con legittimo orgoglio per il titolo, otto partite e ventiquattro punti, questo sì che è un filotto. E non hanno nemmeno speso quanto noi. Sbagliare acquisti e cessioni un anno ci può anche stare, cinque anni di seguito con un paio di miracolose eccezioni proprio no. Vuol dire aver perso il fiuto, l’intuizione creativa, cedere all’intreccio di interessi consolidati e relazioni personali, rinunciare a un progetto su più anni, a imporre una visione, un gioco. Vuol dire vendere giovani di talento per fare quadrare conti senza anima e spremere fino all’osso quelli rimasti per poi buttarli via. L’ultimo gioiello si chiamava Kakà, un secolo fa.
[**Video_box_2**]Nello spettacolo non si ricordano i successi ma i tonfi. Non è giusto ma è così. Faccia perciò atto di contrizione, non per la sconfitta casalinga con il Bologna, partita disgraziata che avremmo potuto (e dovuto) vincere con almeno tre gol di scarto. Ma per il bilancio consuntivo degli ultimi cinque anni. E rinunci a una parte della liquidazione multimilionaria, di cui si dice che sia la sola ragione per cui il Cav. la tenga ancora con sé. Del Milan, è lei il fusibile: si comporti di conseguenza.