Il processo sulla morte di Pantani non sarà archiviato. Ma a quando chiarezza sul Giro del 1999?
Sono ormai quasi dodici anni che Marco Pantani è morto in quella camera del Residence Le Rose a Rimini. Era il 14 febbraio, era una giornata fredda e nebbiosa e il mare tirava a brutto. Edema polmonare e cerebrale, a causa di un'overdose di cocaina dissero allora. Ora dicono che probabilmente non fu la cocaina a causarne la morte, che fu a causa della "posologia sbagliata dei medicinali", quelli che prendeva sotto prescrizione per contrastare i forti sbalzi d'umore causata dalla depressione e dall'uso di sostanze stupefacenti. Non solo. Dicono che la pallina di mollica di pane e cocaina trovata affianco al corpo non c'era, sarebbe stata messa dopo, almeno stando alla testimonianze degli infermieri che per primi giunsero nella stanza del Pirata. Per questo il gip di Rimini, Vinicio Cantarini, ha ritenuto fondata l'opposizione dell'avvocato Antonio De Renis alla richiesta di archiviazione del pm Paolo Giovagnoli. Il processo continua, come aveva chiesto la famiglia. Il processo continua perché troppo ancora non quadra in quello che accadde quel San Valentino.
Si andrà avanti a indagare, dodici anni dopo, dodici anni che sono serviti a far luce su poco, che hanno alimentato ipotesi controverse, opposte, che hanno soprattutto fatto parlare molto di Pantani, della sua dipendenza, della sua fine ingloriosa, perché un campione che finisce in quel modo non può essere un campione, un modello. Tesi di molti, tesi che però non trova nemmeno uno spiraglio di dignità nella testa di quei tanti tifosi che ancora non possono scordare Marco al di là degli ultimi anni, non possono dimenticare i suoi scatti, le sue tante vittorie, le sue altrettante sconfitte, cadute, rinascite sportive.
In aula si cercherà la verità, se sarà possibile trovarla, ma è verità processuale, buona solo a riempire l'ennesimo faldone a nome Marco Pantani.
Fuori dalle aule infatti una verità c'è già ed è quella di sportivi e tifosi che sanno che il Pirata se ne è andato quel 14 febbraio, anzi anni prima, in quella mattina del 5 giugno del 1999, a Madonna di Campiglio, quando alle 10,10 notificarono alla squadra, la Mercatone Uno la squalifica di colui che stava dominando quell'edizione del Giro d'Italia. Lì Pantani chiuse con Pantani, lì ebbe inizio l'ultima discesa, la fine dei giochi e dello spettacolo, nonostante il Mont Ventoux e Courchevel (quando al Tour del 2000 sbriciolò la resistenza di Armstrong). Quelle parole: "Mi sono rialzato, dopo tanti infortuni, e sono tornato a correre. Questa volta, però, abbiamo toccato il fondo. Rialzarsi sarà per me molto difficile"; quella frase fu il punto finale sulla sua carriera.
[**Video_box_2**]Se proprio si deve continuare a parlare di Pantani, a capire cosa è successo, è lì che bisognerebbe indagare, lì dove andrebbe fatta luce, per ridare la dignità sportiva a un campione incredibile e irripetibile, il punto più alto del ciclismo degli anni Novanta e, forse, di quelli a venire. Perché quel controllo effettuato all'hotel Touring di Madonna di Campiglio, quelle fialette, quel 52 per cento di ematocrito – dopo una decina di controlli negativi durante quell'edizione della corsa rosa –, hanno segnato l'eclissarsi di un atleta, ma soprattutto di un uomo. Altro non conta. Il resto è una questione familiare (che l'ottimo Francesco Ceniti sulla Gazzetta dello Sport sa trattare con precisione e sensibilità) che come familiare dovrebbe essere trattata, senza dettagli, senza titoli sui giornali. Alla famiglia si deve il rispetto del dolore, ai tifosi, a chi Marco lo ha amato sportivamente la verità del perché proprio lui venne scelto come capro espriatorio di un sistema che doveva cambiare.