Totti, Di Natale e il tempo mesto degli addii
Cinque, come le reti segnate dalla Roma al Palermo. Cinque, come le vittorie consecutive in campionato per Luciano Spalletti. Cinque, come le presenze stagionali di Francesco Totti. Fosse successo a Napoli, avrebbero battuto tutte le strade possibili per dare un senso a questo succedersi di cifra e trasformarlo in altrettanti numeri da giocare al Lotto. Siccome è successo a Roma – e alla Roma – ciò che da altre parti viene vissuto con sereno e apparente distacco, si trasforma invece in occasione per buttarla in caciara. Da una parte Totti che sceglie un'intervista malandrina per rendere manifesto il malessere che tutti intuiscono. Dall'altra Spalletti che non può perdere un grammo di autorità e spedisce a casa il capitano non giocatore, cacciato con umiliazione dal ritiro. Sullo sfondo, una società che sostiene che si sia trattato di una decisione tecnica e preferisce voltarsi dall'altra parte. Per pavidità, nel migliore dei casi. Per disegno preciso, in quello più malizioso. Tradotto: non riusciamo a dire a Totti che è il caso di farsi da parte, ci pensi l'allenatore per noi. Servirebbe allora un viaggio fino a Torino, fronte bianconero, per farsi spiegare bene come abbiano tagliato i ponti con Alex Del Piero, un altro che aveva poca voglia di smetterla con il pallone.
Un confronto campale, nonostante le parole di circostanza emesse dopo il successo sul Palermo. Una vicenda che ora rende incerto quel futuro da dirigente che Totti avrebbe voluto disegnare per sé. Troppo fragorosa è stata la rottura in poche ore per trovare un collante tale da rimettere insieme tutti i cocci. Dicono che sarà difficile trovare un vincitore e un vinto, alla fine. L'impressione è che comunque sarà Totti a soffrirne di più, nonostante lo stadio Olimpico e tutti i tifosi siano con lui. Ne soffre perché ha finalmente capito di essere giunto al punto di non ritorno, dopo aver cullato l'ipotesi di un nuovo contratto da giocatore, lasciando in stand-by quello di sei anni da dirigente già concordato con la società. Di questo avrebbe voluto convincere James Pallotta nell'incontro in programma a marzo, per poter festeggiare a fine settembre i quaranta anni sul campo. Ora tutto è cambiato e il capitano giallorosso deve cominciare a decidere che cosa vorrà fare da grande, il momento più temuto se, come sostiene uno studio del sindacato mondiale di categoria, un terzo dei giocatori soffre di depressione, la maggior parte al quando deve chiudere con il calcio giocato. Un appuntamento che per Totti si ripete dal 28 marzo 1993, giorno di Brescia-Roma, quando debutta in serie A a 16 anni. Da allora il mondo è cambiato radicalmente, quello del pallone no. Con i suoi ritmi, i suoi riti, le sue sicurezze. Sicurezze che diventano ancor più tali se lo si fa in un solo posto dove sei amato come figlio prediletto, qual è Roma per Totti. Una condizione che ti obbliga a rimandare di anno in anno, di mese in mese, di giorno in giorno il momento in cui fare i conti con le scelte da prendere. E allora, forse, l'intervista che ha scatenato il putiferio è stato l'atto con cui l'uomo ha voluto farsi coraggio e decidere una volta per tutte.
[**Video_box_2**]In parallelo si muove la vicenda professionale di Antonio Di Natale. Stesso numero (il 10), stesso ruolo (attaccante), stesso grado (capitano), stessa capacità di diventare una bandiera in un'epoca pallonara che preferisce ammainarle: napoletano di nascita ma friulano nei fatti, a Udine dal 2004. E anche le stesse insofferenze, con la differenza di averle manifestate già alla fine dello scorso campionato. Di Natale si era risolto ad affrontare comunque la nuova stagione, andando subito a incocciare nelle scelte di Stefano Colantuono, che non lo riteneva più insostituibile come i predecessori. Dal campo alla panchina (e al relativo mal di pancia), il passo è stato breve, con l'ipotesi di un addio anticipato durante la sosta invernale. Niente di tutto questo, fino alla possibilità di rispolverare un po' della gloria perduta domenica pomeriggio a Marassi. Rigore per il pareggio a tempo ormai scaduto, opportunità per ritrovare il gol dopo l'unico segnato quattro mesi e mezzo prima, proprio al Genoa. Ma la conclusione è fiacca, il riflesso di Perin fa il resto: lo sguardo nel vuoto Di Natale e Colantuono a capo chino in panchina fissano il fotogramma definitivo di un'altra storia che va a chiudersi. Anche questa (quasi) all'alba dei quarant'anni, anche questa in ritardo.