Chi è Ali Al Hussein, il giordano che punta alla presidenza della Fifa

Francesco Caremani
Nato il 23 dicembre 1975 ad Amman ha nell’Egitto il suo unico alleato, anche se in un gioco di veti incrociati potrebbe catalizzare altri voti tra quelli già presi nel 2015. Piace per i suoi modi e per le sue idee sul football.

La candidatura del principe giordano Ali Al Hussein non è di facile lettura. Uscito sconfitto dalle elezioni dello scorso maggio contro Joseph Blatter, nonostante l’appoggio dell’Uefa, ora deve fare i conti con la figura preponderante dello sceicco Salman Bin Ebrahim Al-Khalifa, che dalla presidenza Afc guida sulla carta la corazzata asiaticoafricana. Presidente della Federazione giordana di calcio dall’età di 23 anni, è considerato dai più il ‘piccolo principe’ di Blatter che lo portò nel comitato esecutivo della Fifa contro il sudcoreano Chung Mong-joon e la sua invadenza politica ed economica all’interno del governo del football. Laureato a Sandhurst, è fondatore e direttore del Centro nazionale giordano per la sicurezza e la gestione delle crisi, oltre che generale della Royal Jordanian Army. Fratello minore di un monarca in fondo alla classifica dell’indice WJP Open Government, si è battuto strenuamente per il diritto delle calciatrici musulmane di giocare con il velo, promuovendo il calcio femminile nel mondo arabo.

 

Nato il 23 dicembre 1975 ad Amman ha nell’Egitto il suo unico alleato, anche se in un gioco di veti incrociati potrebbe catalizzare altri voti tra quelli già presi nel 2015. Piace per i suoi modi e per le sue idee sul football, nelle quali crede ciecamente, e nonostante sia frutto dell’establishment più corrotto nella storia della Fifa ha al suo arco alcune frecce. Dopo la caduta di Mohamed Bin Hammam dalla presidenza AFC per corruzione (l’affare dei diritti televisivi con il World Sports Group) si è adoperato per rendere pubblici i documenti che riguardavano il caso, passati alla storia come i Fifa Files (http://times-fifafiles-prod.elasticbeanstalk.com/), titolo dell’inchiesta pubblicata nell’edizione domenicale del Times. Costruendosi l’immagine di principe della trasparenza, soprattutto verso i media, per tutto ciò che accade nelle segrete stanze dei palazzi del calcio mondiale, o quasi. Prima della candidatura di Salman Bin Ebrahim Al-Khalifa, oggi suo acerrimo nemico, era sicuro di vincere e probabilmente avrebbe avuto l’appoggio dell’Uefa, come accaduto in passato, costretta poi a presentare Gianni Infantino.

 

Stretto fra santità e perdizione vorrebbe destinare 700 milioni di euro per modernizzare gli stadi nel mondo, creare una commissione per combattere il razzismo e le partite truccate, proteggere i diritti dei calciatori. Ha lambito personaggi di dubbio spessore, ha cercato strade nuove e diverse di governance, ma non convince del tutto il suo prendere troppo sul serio il calcio quando avrebbe questioni ben più importanti di cui occuparsi in patria, dove l’ambizione di crescita, però, è tarpata dalla presenza del fratello maggiore alla guida del Paese. Oceania, Medio Oriente e Africa, i bacini dove potrà prendere quei voti necessari (ha riscosso anche l’endorsement di Malta che l’aveva già votato lo scorso maggio contro Blatter) a cucirsi addosso il ruolo di terzo fra cotanto senno, forse l’unico outsider che può rappresentare la mina vagante capace di spostare le ultime decisive teste che designeranno il nuovo presidente Fifa e il futuro del calcio. È tifoso dell’Arsenal, ma questo non lo aiuterà.
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