La gogna dell'antidoping. Il ciclismo delle inchieste e l'accanimento su Alessandro Ballan
Quando il 6 giugno 2013 Alessandro Ballan è rientrato in gruppo per il Gp Gippingen – corsa in linea che si svolge nel Canton Argovia in Svizzera – dopo sei mesi di inattività a causa di un brutto infortunio non poteva certo immaginare che il peggio doveva ancora arrivare. Il ciclista italiano solo pochi mesi prima aveva rischiato di lasciare il ciclismo per sempre a causa di una caduta. Il 13 dicembre 2012, mentre si trovava in ritiro con la sua squadra in Spagna, era finito contro una roccia a bordo strada. Il bollettino medico parlava di frattura del femore e di tre costole, emorragie al polmone e al rene sinistro, profonde lesioni alla milza. Quest’ultima gliela dovettero asportare pochi giorni dopo. Il resto fu un lungo percorso di riabilitazione. Perché giù dal Coll de Rates, tra Valencia e Alicante, il corridore veneto non solo aveva rischiato di non correre più, ma anche di morire. Iniziò una rincorsa di sei mesi senza la certezza di poter ritornare in sella, riprendere il suo posto in gruppo e ricominciare quella carriera agonistica che l’aveva portato sul gradino più alto del podio al Mondiale di Varese nell’ottobre del 2008 e un anno prima a trionfare al Giro delle Fiandre.
La vittoria di Alessandro Ballan al Campionato del Mondo di Varese 2008
Quel 2013 doveva essere l’anno del suo ritorno ai vertici del ciclismo mondiale: il 2012 era andato bene, aveva ottenuto un terzo posto al Giro delle Fiandre e alla Parigi-Roubaix, la gamba era buona e sembravano archiviate le tre stagioni precedenti perse prima a curare un cytomegalovirus – il virus alla base di herpes e monocleosi – e poi a difendersi dalle accuse della procura di Mantova. Il corridore era stato infatti inserito tra gli indagati all’interno del cosiddetto Processo Lampre, ossia l’inchiesta che sosteneva di aver scoperto un traffico di sostanze dopanti che dalla farmacia di Mariana mantovana del dottor Guido Nigrelli raggiungeva i cicloamatori locali e almeno una decina dei ciclisti guidati dall’ex campione del mondo Beppe Saronni, la Lampre appunto.
Quel 2013 iniziò prima in un letto d’ospedale, continuò in una affannosa e infruttuosa ricerca di una forma fisica accettabile, si concluse anzitempo nelle aule dei tribunali italiani: prima venne deferito alla Seconda sezione della Procura Nazionale Antidoping, con la richiesta di due anni di squalifica con l’accusa di aver assunto prodotti dopanti durante la sua permanenza alla Lampre; infine venne squalificato con il massimo della pena: due anni.
Una storia già vista in questo sport. Un ciclista raggiunge l’apice del successo, viene beccato dall’antidoping, viene squalificato, si applaude allo smascheramento avvenuto e si rassicura tutti sottolineando come il ciclismo si stia ripulendo, si riparte con la certezza che tutto vada bene e che un’altra mela marcia sia stata assicurata alla giustizia sportiva.
Peccato che il copione è in questo caso più complesso e per certi versi paradossale.
Il successo di Alessandro Ballan al Giro delle Fiandre del 2007
Ad Alessandro Ballan infatti viene contestato il ricorso nel 2009 ad alcune sedute di ozono terapia, una pratica medica – la cui efficacia è ancora al vaglio della comunità scientifica internazionale – che grazie all’utilizzo di una miscela di ossigeno e ozono, rafforza il lavoro dei globuli bianchi nell’eliminare corpi estranei (come batteri e virus) nei punti del nostro organismo trattati con la terapia. Trattamenti che il corridore veneto non ha mai negato. Anzi, lui stesso li aveva denunciati alla Federazione autosospendendosi dall’attività sportiva per curarsi da un’epatite acuta provocata dal cytomegalovirus. “Ero stato ricoverato in ospedale – ha detto alla Gazzetta dello Sport Ballan –, i miei valori erano a zero. E quanto al passaporto biologico, era esemplare, le rilevazioni non erano mai state discusse, anzi, mai sospettate”. Tutto questo accadeva a fine marzo. A correre tornò a giugno, tre mesi dopo le cure, un lasso di tempo che rende i benefici della terapia (una maggiore ossigenazione del sangue) del tutto ininfluenti.
[**Video_box_2**]Ma Ballan non venne squalificato solo per questo: venne accusato di essersi sottoposto all’autoemotrasfusione, pratica vietata dal 1985 che consiste nell’estrarre, ossigenare e reiniettarsi il proprio sangue per avere una quantità maggiore di emoglobina (sostanza che permette all’atleta di trasportare più ossigeno nel sangue e quindi andare più forte). Il punto è che l’ozono terapia avviene per autoemotrasfusione e quindi non deve stupire che Ballan ricorse a questa pratica. Tutto regolarmente trasmesso a chi di dovere. Tutto fatto in piena trasparenza, ma che non è servito a evitare una condanna a due anni e la macchia indelebile del dopato, del pizzicato, del reietto da evitare in ogni modo: insomma la tradizionale macchina del fango. E poco importa se l’inchiesta sul doping mantovano si sia poi rivelata inconcludente, se tutti i corridori e manager siano stati scagionati “perché il fatto non sussiste”.
Alessandro Ballan al Tour de France del 2009 in maglia iridata con la bici speciale realizzata per lui dalla Wilier
Una vicenda che diventa paradossale il 16 gennaio 2016, quando termina la squalifica e il corridore prova a cercare un ingaggio per ritornare in gruppo a 36 anni. Nessuno lo vuole, o meglio, c’è chi lo vorrebbe, ma non può ingaggiarlo. La maggior parte dei team professionisti infatti ha sottoscritto un regolamento etico interno che vieta loro l’ingaggio di atleti pizzicati all’antidoping, indipendentemente dalle circostanze di ogni caso. E così Ballan si ritrova al palo, prima sospeso per essersi autosospeso per curarsi (con pratiche non regolamentari, ma qui c’era di mezzo la salute di una persona, non il risultato di una gara), e poi mazziato da un regolamento potenzialmente positivo, ma che presuppone l’infallibilità della giustizia sportiva. E questo non è il caso.