L'arte di saper cogliere le oppurtunità e l'abisso tra Barzagli e Balotelli
C'è del metodo nell'indolenza con cui Mario Balotelli sta buttando via ogni opportunità e, con quelle, se stesso. L'ultimo esempio contro quel Sassuolo che – per il Milan – si sta trasformando in una pietra d'inciampo a ogni incrocio. Titolare in campionato dopo oltre cinque mesi, il centravanti si è rivelato una zavorra più che un punto di riferimento. Apatico, assente, ininfluente, fuori da ogni contesto di gioco. Come se il futuro fosse già dietro le spalle e non ci fosse più niente da chiedere al domani, trascinandosi con tristezza un giorno dopo l'altro. Perché è questo ciò che trasmette oggi Balotelli. L'arroganza in campo, fisica e gestuale, ha lasciato il passo all'irrilevanza. Di lui, a fine gara, non si ricorda un movimento, un tiro, un intervento, anche sballato o fuori tempo. Forse non era quel potenziale fenomeno che tutti avevano salutato ai tempi dell'Inter, quando si affacciava in prima squadra ancora minorenne. Ma non era nemmeno quella controfigura di attaccante con cui ci ha abituati a convivere in anni recenti. Il problema è che, come accade a molti baciati dal talento, Balotelli ha pensato che bastasse soltanto questo per andare avanti nel calcio, quando invece le capacità del singolo (non solo nel pallone, ma in ogni singola espressione umana) hanno bisogno di essere educate giorno dopo giorno per poter essere praticate ed esaltate.
Eppure di occasioni ne ha avute, tante e tutte di alto profilo, salvo defilarsi al momento della verità. Avrebbe potuto essere il leader dell'Inter post-Mourinho, ha tagliato i ponti gettando una maglietta per terra. Avrebbe potuto diventare un crack in Inghilterra, è riuscito persino a litigare con Roberto Mancini, che pure lo aveva voluto al Manchester City. Avrebbe potuto conquistare il cuore del Milan, la squadra per cui aveva sempre tifato, è stato progressivamente lasciato al proprio destino man mano che il rendimento sul campo si faceva opaco. Cesare Prandelli gli aveva costruito intorno la Nazionale del Mondiale brasiliano, verrà ricordato come il ct di uno dei flop più brucianti nella storia azzurra. E neppure le seconde opportunità sono andate meglio: il ritorno in Premier, fronte Liverpool, è stato un fallimento a tutto tondo mentre l'inaspettato rientro al Milan si sta trasformando nella disfatta, sua e di chi aveva ancora puntato su di lui. Al punto che diventa spontaneo chiedersi che cosa sarà di Balotelli. Con una punta di tristezza, dal momento che parliamo di uno che ha 25 anni. E con un fondo di rabbia, vedendo che cosa avrebbe potuto essere e non è stato.
[**Video_box_2**]Poi uno va all'opposto e vi trova Andrea Barzagli. Uno cui, se si potesse, si vorrebbe allungare la carriera all'infinito. Lui, se si volta indietro, non può che essere appagato: il Mondiale vinto del 2006, un titolo in Bundesliga con il Wolfsburg (primo e unico nella storia del club), i quattro conquistati con la Juventus. Il club bianconero lo aveva preso come alternativa ai titolari nel gennaio 2011, pagandolo una cifra irrisoria: dalla città della Volkswagen a quella della Fiat per poco meno di mezzo milione. A Torino il difensore si è riscoperto fondamentale, al di là degli acciacchi fisici e dell'età, fino a ritrovare anche la maglia della Nazionale. Una questione di lavoro, non di talento. Quello che ti fa trovare pronto quando le circostanze lo richiedono. Come accaduto a Bergamo, luogo in cui Barzagli si è espresso in una circostanza a lui pressoché sconosciuta: il gol da segnare e non da evitare, per il difensore il secondo in sei stagioni alla Juventus. Curiosamente anche quello precedente si era registrato contro l'Atalanta, il 13 maggio di quattro anni fa. Ma allora si faceva festa per lo scudetto e a Barzagli venne concesso l'onore di calciare un rigore. Stavolta è stata una rete “vera”, quella che ha soccorso la giornata negativa degli attaccanti e sbloccato la partita, con la capacità (lui sì) di sfruttare l'opportunità concessagli. Se a 34 anni la Juventus gli propone un rinnovo del contratto fino al 2018, allora si può misurare quale sia l'abisso che lo separa da Balotelli. E da tutti quelli che si credono, o cui fanno credere, di essere una generazione di fenomeni.