Ci sono ritorni e ritorni: l'irrilevanza di tanti, il successo di Spalletti. Aspettando Novellino
I grandi ritorni non entusiasmano nel calcio. Dall'irrilevanza al disastro il passo è breve. Al Milan, per esempio, sono sempre stati disposti a concedere una seconda opportunità, in panchina come sul campo. Ma la riproposizione di Fabio Capello e Arrigo Sacchi non seppe creare magie perdute, il riaffacciarsi di Andriy Shevchenko si rivelò poco più di una comparsata, la presenza attuale di Mario Balotelli e Kevin Prince Boateng è certificata più dal gossip che dalle cronache delle partite. A volte, però, battere piste già conosciute si rivela vincente, come per Luciano Spalletti alla Roma. Alla base c'è un duplice cambiamento. Di uomini, innanzitutto, nel senso fisico del termine. A richiamare il tecnico è stata una dirigenza nuova, con il passaggio dal familismo dei Sensi alle visioni stelle&strisce di James Pallotta: non si conoscevano, è stato come ripartire da zero. Come un ripartire da zero è stato quello di Spalletti. Si era lasciato male con Roma e con la Roma, con qualche polemica di troppo. L'allenatore è tornato, come si suol dire, vaccinato a certe situazioni, smussando aspetti caratteriali ma senza venire mai meno a quanto richiede il ruolo. Chiari la catena di comando e il senso delle decisioni, dopo gli ondeggiamenti dell'ultima fase di Rudi Garcia. Un ritorno ai metodi zemaniani, quando non si guardava in faccia a nessuno, ma con la capacità di fare risultato. Perché se il boemo sacrificava i singoli in nome della propria idea di gioco (chiedere a De Rossi), Spalletti vuole invece salvare i singoli, non solo per la prima idea di gioco ma, innanzitutto, per la propria idea di squadra. Un'idea dove conta il gruppo, dove ognuno può dare qualcosa. E allora si può bacchettare Totti e poi concedergli la standing ovation al Bernabeu e, al tempo stesso, tirare le orecchie a Dzeko per gli errori contro il Real Madrid e riaffidargli comunque una maglia da titolare pochi giorni dopo: responsabilizzandolo, non massacrandolo, fino a venire ripagato da un gol che sembrava essere diventato una chimera. Un metodo con cui Spalletti ha saputo ricompattare la squadra, su cui ha ricostruito la credibilità della Roma e della sua classifica: con quella di Udine siamo arrivati a otto vittorie consecutive che, in altri tempi, avrebbero fatto gridare al miracolo, mentre oggi sono (quasi) la normalità per quanto stanno facendo Juventus e Roma.
Un ritorno, allo stesso modo, è stato quello di Walter Novellino a Palermo. Non tanto per la squadra, mai allenata prima, quanto per il fatto di ritrovarsi con Maurizio Zamparini, suo presidente a Venezia. Un riaffacciarsi inatteso, ripescando l'allenatore da un cono d'ombra in cui era finito dopo una serie di stagioni tutt'altro che esaltanti. A Novellino è stato affidato un compito immane, quello di recuperare una squadra che appare eufemistico definire confusa di fronte alle continue capriole del proprio numero uno, affetto da bulimia senile nel rapporto con i tecnici. Zamparini li ha divorati uno dietro l'altro quest'anno, tra prime scelte come Iachini, Ballardini e Schelotto e collaboratori come Viviani, Tedesco e Bosi (cui aggiungere anche dirigenti, come il ds Gerolin allontanato senza colpo ferire). Un mutare senza logica di volti, rapporti e metodologie, che ha avuto come unico effetto quello di portare la squadra sull'orlo della retrocessione e i tifosi sull'orlo di una crisi di nervi. Il cammino è cominciato con una sconfitta, accettabile per il valore dell'avversaria (il Napoli) non per gli equilibri della classifica. Novellino proverà a svegliare il Palermo con la solita ricetta fatta di lacrime&sangue, l'unica che sembri funzionare nelle situazioni disperate. Lo farà con tutte le sue forze, per il Palermo e per se stesso. Nella lunga carriera di Zamparini è stato l'unico allenatore (lasciando perdere la meteora Schelotto) a non essere mai stato esonerato, una medaglia che Novellino non vuole strapparsi dal petto proprio adesso.