Recoba ha dato l'addio al calcio. Lettera al Chino
Martedì Alvaro Recoba ha deciso di chiudere la sua carriera da calciatore al Nacional, la squadra uruguayana da cui era partito per arrivare in Italia all'Inter. Ripubblichiamo la lettera che Maurizio Crippa scrisse a settembre del 2007 al più allegro (e pigro) sorriso sinistro mai giunto in nerazzurro, che da Milano si era da poco trasferito al Torino.
“Chi gioca individualmente gioca per l’avversario, chi gioca per la squadra gioca per sé”
Helenio Herrera
“Di tattica el capìss nient, ma se continua a far gol, mi sta benissimo”
Osvaldo Bagnoli, su Ruben Sosa
Il calcio non ti permette di fermarti o di fare il furbo, devi sudare per meritarti quello che guadagni. Il calcio è un lavoro, solo chi non fa il calciatore dice che è un gioco”. Adesso che ha cambiato maglia, adesso che è finita, a meno di rocamboleschi rientri da fine prestito (ma si dovrebbe piuttosto parlare di agnizione recidiva, si veda più avanti), adesso verrebbe proprio voglia di scriverlo: tutto quello che un interista vorrebbe dire ad Alvaro Recoba e fin qui per carità di patria non gli ha mai detto. Perché se quella frase che sembra scolpita nel marmo, nell’estate del 1998, sotto le fresche frasche di Appiano Gentile l’avesse detta lui, l’Alvaro Recoba detto il Chino, il più allegro sorriso sinistro mai giunto da oltremare a indossare la casacca nerazzurra, allora questa sarebbe un’altra storia.
Invece quella sentenza sul duro lavoro del calciatore la pronunciò un altro. Non un muratore con i ferri da stiro negli scarpini; non un bovino di buoni garretti da centrocampo. La disse Roberto Baggio. Ora, nel calcio non esistono le controprove (“outra vez”, anche Pelè lo può dire solo negli spot di Mediaset Premium), ma esiste e ben codificato il delitto di lesa maestà. Dunque, non si proverà nemmeno per un istante a dire: se Recoba avesse lavorato duro come Baggio, se avesse allenato la sua soglia di resistenza al dolore e alle ginocchia maledette come l’ha allenata per anni Baggio, il Chino sarebbe diventato uno alla pari di Roby Baggio. Non lo si dirà. Ma si annoterà, questo sì, quanto gli disse Luis Figo – proprio Luís Filipe Madeira Caeiro Figo in persona – dopo averlo visto per un po’ in allenamento: “Avessi avuto io il tuo sinistro, chissà cosa avrei potuto fare”. Ma Figo è un altro sgobbone, uno che sa soffrire. Un portoghese atipico, persino postmoderno nel suo professionismo. Invece Alvaro Alexander Recoba Rivero, detto il Chino, quel suo sinistro così perfetto consegnatogli in dote da madre natura lo mise subito in banca, e si adagiò sotto le frasche fresche di Appiano Gentile. Non già per mancanza di professionismo, no, né di scarso attaccamento alla maglia, ché al nerazzurro c’è sempre stato affezionato davvero, e uno dei pochi. Bensì per una sua diversa Weltanschauung, e soprattutto per una intuizione quasi freudiana e per una fulminea comprensione, da fuori classe, di come stessero le cose che il Chino ebbe, poco più che ventunenne, quando nell’estate del 1997 sbarcò a Milano, volo diretto da Montevideo, acquistato da Massimo Moratti per così dire tramite videocatalogo.
Sbarcò portandosi dietro, oltre alla videocassetta dei suoi funambolici gol che avevano impressionato (leggenda vuole) i figli di Massimo, anche un tabellino da fare impressione: nel 1994 (18 anni) 12 partite e 13 gol; nel 1995, 12 partite e 14 gol; nel 1996, 16 partite e 18 gol; nel 1997, 11 partite e 12 gol. Sbarcò negli stessi giorni in cui arrivava a casa Inter pure Ronaldo, con più fanfare e con la sua altrettanto impressionante media-gol. Giovani, bravi e bellissimi. E pronti per diventare i due più grandi rimpianti della storia recente dell’Internazionale Football Club di Milano e della sua tifoseria, invero più unica che rara.
E qui bisogna farsi da parte, e guardarla un po’ questa strampalata tifoseria. Oggi, che dopo dieci anni alla corte di Moratti – dieci anni in cui la sua stagione migliore fu quella che passò in esilio in laguna, al Venezia, luce degli occhi del coach Walter Novellino. Oggi che è passato sotto le nobili bandiere del Toro, dove l’ha rivoluto proprio Novellino, l’unico allenatore che lo abbia mai preso sul serio, tolto forse Hector Cuper, e un motivo ci sarà. Oggi, insomma, più che Alvaro Recoba, la vera anomalia interista sembra proprio la sua tifoseria. A partire da quella compagnia di giro della tribuna vip che adesso si dichiarano “orfani di Recoba”, in barba a qualsiasi legge statistica del calcio. A partire da Gad Lerner: “C’è grande rimpianto. Recoba ha saputo conquistarci col suo attaccamento alla maglia. Essendo un genio del pallone rispecchia molto l’anima interista persino nella sua apparente indolenza”. O Paolo Rossi: “Guarderò le partite del Torino. Sono Recobista, uno così non si lascia andar via”. O Enrico Ruggeri: “Avrei venduto Adriano. Il Chino fa parte della storia nerazzurra. Ma è andato in prestito, vero?”. In prestito? Ma è mai possibile? Oggi che, vivaddio, il tifoso interista anche di più difficile palato paga il biglietto per godersi lo spettacolo di Ibrahimovic, di Figo, di un signore che si chiama Dejan Stankovic, per non dire di Crespo e tutti gli altri. Ma insomma, per quale lunare motivo un tifoso dovrebbe rimpiangere il Chino, un giocatore che non è mai stato decisivo una volta, una sola, in una sola stagione? Eppure, è sempre stato amato anche dai tifosi della curva (quelli, per dire, che fischiavano pure Bobo Vieri). Gli hanno dedicato pure un sito web: si chiama recobamania.com e ha sull’homepage la foto di un lenzuolo steso al San Siro, che recita: “Chi ama il calcio ama il Chino”. E certi giochi di prestigio, come quei due gol al Brescia con cui si presentò la prima volta, e salvò la baracca, o quel capolavoro balistico che – ci fosse già stato Youtube, avrebbe fatto il giro del mondo – realizzò con l’Empoli, prima di esplodere nella sua risata da bambino con i dentoni, sono cose che fanno affezionare.
Eppure il Chino è anche quello che sbagliò al novantesimo il rigore con l’Helsingborg, e l’Inter finì fuori dalla Champion ai preliminari, inaugurando una delle stagioni più grame di sempre. E’ anche vero che la colpa della stagione grama non fu solo sua, forse assai più di Marcello Lippi e della campagna acquisti. E dello scarso affetto che l’uomo col sigaro dimostrò per le sue stelle, il Chino e il Roby, nel mentre che i dottori finivano di rovinare il ginocchio di Ronaldo. Ed è anche vero che poi la stagione, a Lippi, gliela salvarono lui e Baggio: uno cui invece la stagione Lippi gliel’aveva rovinata davvero. Andò a finire che al termine di quella stagione amara, nello spareggio col Parma per raccattare un posticino in Uefa, fu Roby Baggio a salvare tutti, con due gol magici dei suoi. Vinse da solo, e poi se ne uscì dal campo senza salutare, come un Dio a buon motivo indispettito, e se ne andò dall’Inter, a macinare altra gloria a Brescia. E invece, fu proprio alla fine di quel medesimo spareggio che il Chino, più imbronciato come un bimbo che indispettito come un eroe, sbottò: “Sono stufo di giocare nel giardino di casa del presidente”. Ma poi restò. Per altri sette anni. Quasi altrettanto inutili, ai fini del palmarès, per l’Inter e per lui.
Perché lo fece? Com’è possibile che la storia sia andata così? Certi destini sono questione di un attimo. E si consumano semplicemente. Fu che arrivando a Milano, coi suoi occhioni scuri e sorridenti, i suoi dentoni da bambino contento – quasi il fratello minore di Luis Nazario da Lima Ronaldo – Alvaro Recoba (forse a differenza di Luis Nazario Ronaldo, che infatti a Milano versò molte lacrime, e ne fece versare) afferrò al volo il punto della questione.
Ora, bisogna sfatare qualche malevola e persistente diceria sul Chino. Non è un cattivo ragazzo. Non è neanche pigro, se per pigro si intende lazzarone. Va bene, c’è anche chi pensa che il calcio urugayo sia finito con Juan Alberto Schiaffino, eroe del Maracanà nel 1950, ma sono corbellerie pari solo a quelle di chi brontola che c’era più emozione con la tv in bianco e nero e Nicolò Carosio. Però è vero che, anche come urugayo, il Chino è un calciatore piuttosto atipico. Gli uruguaiani vanno infatti fieri per la loro “garra charrúa”, la loro grinta, ma è per l’appunto dal 1950, quando aprirono un buco così nell’ego dei brasiliani, che non vincono un Mundial e che la loro stella si è offuscata. Del resto il loro calcio è un po’ come il loro paese. Montevideo, la città dove il Chino è nato nel 1976, tre mesi prima che il dittatore golpista Juan María Bordaberry fosse destituito da altri golpisti militari, è una magnifica città degli anni Cinquanta, trafficata di taxi scarburati, che mette malinconia solo a vedere le foto e senza neanche bisogno di aver mai letto Eduardo Galeano. Mica per niente l’Uruguay è il paese con la popolazione più vecchia del Sudamerica (sudamericani che non fanno manco figli?), e un tasso di suicidi che in Svezia al confronto sembrano degli allegroni. E’ l’unico paese del Sudamerica dove la massoneria conti più dei preti (ma almeno i poteri sono separati), e insomma è normale che in un posto così ci sia oggi al governo una specie di fratello triste di Lula, che farebbe sembrare un brillante riformista pure Romano Prodi. Un paese dove nell’Ottocento ballavano il Pericón mentre dall’altra parte del Mar de La Plata inventavano il Tango: tanto per dire di una inesistente propensione al commercio d’esportazione e alla globalizzazione delle culture.
Montevideo è una città pacifica e tranquilla con i parchi e le stradine, a suo modo mitica, per chi almeno conserva impolverata la memoria del boom latinoamericano; una Svizzera dell’America dicevano ai tempi di Schiaffino. Rimasta un po’ indietro, ma chi la conosce dice che la colpa è del fuso orario (Chávez non si è inventato niente), perché l’Uruguay sta indietro di un’ora già dall’Argentina, ma quattro addirittura dal Messico. Sarà o non sarà, ma intanto la maggior parte dei suoi giovani se ne va all’estero. E allora non si può farne una colpa al Chino, se come quasi tutti i talenti della sua leva, e non solo calcistica, se n’è scappato presto di lì. Appena dopo aver imparato a dar calci al pallone in periferia. Subito dopo aver preso tutto quel che poteva, dal suo primo talent scout, il mitico Perrone, che tirò su la miglior scuola di calcio urugaya delle ultime generazioni in una squadra dal nome triste e anni Cinquanta (calcisticamente parlando) pure quella, il Danubio. Il Chino ne era una delle promesse, quando non si dimenticava di andare a giocare per andare a pesca con suo fratello. Un talento buono e indolente, tanto che il mister Perrone lo prese a ben volere, se lo prese quasi in casa. E il Chino, che è sempre stato sensibile ai padri, ancorché putativi, si innamorò di sua figlia Daniela, e la sposò.
Non è cattivo, Recoba. Non ha mai litigato con nessuno. Forse solo con Tardelli, ma qui siamo al caso limite (“Io qui ho litigato con tutti, non solo con Recoba. Ho litigato anche con Cordoba: ma ce l’avete presente Cordoba? E’ impossibile litigare con Cordoba”). Carriera esemplare, in campo e fuori. E anche l’unica volta che ha inciampato nella disciplina, fu perché inciampò in una cosa più grande di lui. Molto più grande di lui. Sproporzionata alla sua indolenza serena. Ma poi, a patteggiare la pena davanti giudice per lo scandalo passaporti ci dovette andare lui. E si prese l’umiliazione e gli sfottò. Anche da Bobo Vieri, il più ruvido e caustico dei gioielli di Moratti, il contrario caratteriale di Recoba, che però riuscì a chiudere la pratica a suo modo, coi giornalisti noiosi, lisciandosi il mento irsuto: “La vicenda passaporti? E io che ne so? Ieri però ho visto Recoba e gli ho chiesto: ma te ti chiami veramente Recoba?”.
Ma insomma il Chino non è mai stato un lavativo. Anzi è uno casa e bottega, con i suoi due figli, con le sue grigliate di carne con gli amici, la play-station e la passione per la pesca, non proprio uno sport di movimento, diciamo. Fin troppo riservato, o meglio poco propenso alla cura della sua immagine. E questo è un difetto che, nel calcio d’oggi, pesa più che essere un conclamato brocco. Così ha lasciato che la sua immagine fuori dal campo si sovrapponesse alla sua icona calcistica, quella di uno svogliato genio sudamericano, un talento sprecato e abulico, di quelli che non se la prendevano neanche per le critiche (“Le critiche fanno parte del nostro mondo e le accetto. Anzi, a volte mi diverto ad ascoltare certi giudizi feroci su di me in tv. La libertà di giudizio è sacra, a farmi arrabbiare ci pensano già i risultati delle partite”). Fin quando, a poco a poco, alla sua carriera riuscita a metà si è sovrapposta come un coperchio una certa cattiveria di giudizi. Di troppo, per uno come lui. Quella, ad esempio, che ha fatto resistere per anni, tv-giornali-bar, il mito di giocatore “più strapagato” – in un apposito parametro ingaggio/inutilità – del mondo, quando invece Recoba fu l’unico, quantomeno il primo, ad andare da Moratti a farselo abbassare, il contratto principesco. E negli ultimi anni il suo è uno stipendio di seconda fascia.
“Avessi avuto io il suo sinistro, chissà cosa avrei potuto fare”. Ma Figo è un’altra cosa. Il Chino arrivò dunque a Milano con Daniela, che era già sua moglie, e prese casa a Como. Arrivò con Ronaldo, e i giornalisti chiedevano insistenti ai compagni di squadra: “Ma quanto è veloce, Ronaldo?”. Finché Diego el Cholo Simeone una volta rispose: “Guarda quello, invece, quello più veloce di tutti è lui”. Ma Recoba, da Montevideo, si è portato dietro il suo calcio tutto talento, felicità e malinconia. Un calcio da anni Cinquanta. Un calcio dove la partita finiva lì, anche. E non c’era bisogno di curarsi l’immagine fuori. Così che una sera a Venezia, una delle sue poche ma davvero magiche sere, quando rifilò da solo tre gol memorabili alla Fiorentina del Trap e di Batistuta, e tutte le tv lo cercavano per averlo ospite. In poche parole la sera di un trionfo che oggi varrebbe il contratto della vita, lui non si fece trovare, si negò a tutti tranne che qualche minuto al telefono. Perché quella sera aveva altri impegni e immancabili, con pochi e fidi amici. Un calcio che oggi non si gioca più e che probabilmente non si può più giocare. Ma sembrava fatto apposta per far impazzire i tifosi dell’Inter. Ed eccoci allora al punto. Quando arrivò da Montevideo, Alvaro Recoba afferrò la situazione. Afferrò al volo che quello che i tifosi dell’Inter volevano, era quel calcio di genio e sregolatezza. E se potevano averlo per poi immalinconirsi ancora di più, in fondo era meglio. “Chi ama il calcio ama il Chino”. E’ per questo che adesso si immalinconiscono anche con Ibrahimovic.
E capì al volo che aveva trovato un presidente che più che una squadra moderna voleva ricostruire il Subbuteo della sua infanzia. Si è molto criticato, e con cattiveria, a proposito dei soldi (i suoi) che Massimo Moratti ha speso per tenersi stretto il suo Chino. E per lui ha veramente fatto cose che non avrebbero fatto i presidenti d’altri tempi. Ma bisogna anche capirlo. Capire che cosa ha significato, per anni, sedersi in tribuna la domenica con al fianco Facchetti, con al fianco Mazzola e Suarez. E Corso. Insomma andare allo stadio coi fantasmi del padre, una bella seduta psicanalitica. E allora, se di tutti i giocatori del Subbuteo di quand’eri piccolo, l’unico che hai azzeccato era propiro lui, l’erede di Mariolino Corso, il folletto squinternato e dal sinistro divino, con gli occhi dolci e i calzettoni giù. Se insomma quello è il tuo campione del Subbuteo, vuoi fartelo scappare, proprio lui, l’unico pezzo al suo posto? Allo stesso modo, nessuno ha mai notato che anche l’unico altro giocatore mai andato via dall’Inter, capitan Zanetti, all’Inter non c’è restato solo perché è il gran capitano, il gran giocatore, il guerriero dalla faccia pulita. Ma perché lì a fare il terzino della fascia destra, guerriero infaticabile e buono e dalla faccia pulita, Zanetti è tale e quale a Tarcisio Burgnich. Si dice sempre che Moratti l’abbia amato come un figlio, Recoba. Forse è più giusto dire che l’ha amato come suo padre.
Sceso dall’aereo, Alvaro el Chino Recoba, con il colpo d’occhio dei fuoriclasse, capì la situazione e mise la palla in gol. Disse, eccomi a casa. Sotto le fresche frasche di Appiano Gentile che, se togliete tutti quei capannoni messi su da quegli sgobboni di brianzoli, è ancora campagna di pioppi e platani che sa di anni Cinquanta, come a Montevideo. E c’è vicino il lago per andare a pescare. E insomma, se l’icona dell’Inter sono io, perché andare più in là? Solo chi vuole entrare nella storia, può pensare che il calcio non sia solo un bel gioco.