Buffon e Paulo Sousa, ovvero indimenticabili e (già) dimenticati
Scoprirsi decisivo a 38 anni. Trovare in se stesso l'energia che ti trasforma in un vecchietto terribile alla Cocoon mentre altri – coetanei o quasi – imboccano il mesto viale del tramonto. Totti, Di Natale e Toni vagano tra una panchina e una mancata convocazione, Gigi Buffon resta il primo nome da snocciolare in formazione, si tratti di Juventus come di Nazionale. Che ciò avvenga per merito e non per diritto acquisito, lo testimonia l'ultimo match in casa del Milan. Il portiere bianconero è stato esemplare nello smorzare sul nascere le velleità altrui di gloria (persino del redivivo Balotelli…) e nel condurre i compagni in un passaggio forse decisivo per la conquista del quinto scudetto consecutivo. Ancor più significativo se si considera come questa prova di forza sia giunta di fronte a Gigio Donnarumma, uno che sta seguendo le orme del collega in quanto a precocità di debutto in campionato e per qualità fisiche e tecniche.
A nessuno è passato per la mente che tra i due ci fossero 21 anni di differenza, che Buffon aveva già esordito in A quando Donnarumma era un “work in progress” dei suoi genitori. Una differenza anagrafica spesso implacabile nel calcio, ma che il bianconero ha azzerato con semplicità di gesto e prontezza di riflessi che fanno pensare a un patto sottoscritto con il diavolo. Non occorre però evocare la solita fortuna di chi è baciato dal talento. Questo c'è, però è stato educato dal senso del dovere che crea la differenza tra il buon giocatore e il campione. Perché Buffon è stato aiutato dagli dei del calcio nel giorno in cui Nevio Scala decide di metterlo in porta a Parma, a 17 anni. Il resto è stata tutta opera sua, nel bene come nel male, con la capacità di ribattere colpo su colpo agli agguati del destino come alle accuse di superficialità al sapore di destra (politicamente parlando). Dai guai di salute è riemerso con una fisicità che gli ha allungato la carriera; agli errori (pochi) tra i pali ha replicato con partite strepitose; è passato senza colpo ferire dal matrimonio con Alena Seredova alla relazione con Ilaria D'Amico, due donne che popolano l'immaginario collettivo di una buona fetta di italiani. E si è messo alle spalle una depressione e storie poco fortunate come l'avventura da imprenditore con la Zucchi e quella da proprietario di un club con la Carrarese: parate anche queste. Con l'ambizione di percorrere a sua volta le orme di un altro grande come Dino Zoff, mondiale a 40 anni in Spagna. Se arrivasse a Russia 2018, sarebbe per lui la sesta Coppa del mondo: nessuno c'è mai riuscito.
E in Russia potrebbe finire Paulo Sousa visto che, secondo gli abituali beninformati delle cose di mercato, potrebbe andare allo Zenit San Pietroburgo per sostituire il connazionale Andrè Villas-Boas. Una preferenza che concluderebbe in anticipo l'esperienza alla Fiorentina, un'avventura che si sta spegnendo nell'ordinario dopo essere stata elogiata come straordinaria appena pochi mesi fa. Lo avevano accolto con indifferenza, giunto da un club di seconda fascia come il Basilea e per di più con un passato juventino, ovviamente da farsi perdonare. Aveva invece convinto tutti, con un gioco non banale e con parole altrettanto non banali. Mai fuori posto, nelle vittorie come nelle sconfitte, con una squadra portata addirittura in testa alla classifica tra ottobre e novembre. Si era parlato di nuova epoca, con frettolosità tutta italiana, ma la Fiorentina non avrebbe potuto reggere di fronte ad avversarie ben più attrezzate. Come è stato, con tutto il corredo di accuse, teorie e sospetti che soltanto una città come Firenze sa regalare. Parole in libertà avevano coinvolto un po' tutti, a cominciare dai Della Valle per finire ai giocatori, lasciando fuori soltanto il tecnico. Fino a oggi, dopo che Sousa è riuscito a farsi prendere a schiaffi nel derby di Empoli, proprio sotto gli occhi di un emissario dello Zenit. A Firenze si sono già attrezzati per dimenticarlo in fretta, come era successo prima per Cesare Prandelli e poi con Vincenzo Montella, trasformando un grande amore in un grande rancore. Dimenticando ancora una volta che, in questo modo, difficilmente si raggiunge un obiettivo.