Pechino riabilita il golf, lo “sport da milionari” vietato da Mao e da Xi

Eugenio Cau
I media ufficiali cinesi sotto l’attuale presidente Xi Jinping hanno scritto che “il campo da gioco si è trasformato gradualmente in una melma in cui si scambiano denaro e potere”. La costruzione di nuovi campi è vietata, ma continua illegalmente, tanto che nessuno sa quanti sono davvero.

Roma. Mao Zedong lo definì uno “sport per milionari”. I media ufficiali cinesi sotto l’attuale presidente Xi Jinping hanno scritto che “il campo da gioco si è trasformato gradualmente in una melma in cui si scambiano denaro e potere”. La costruzione di nuovi campi è vietata, ma continua illegalmente, tanto che nessuno sa quanti sono davvero. Il golf, in Cina, è da sempre uno sport speciale. Vietato, perseguitato, mal sopportato, e legato indissolubilmente a un universo fatto di lussi e di potere. Questa settimana, dopo decenni di divieti, la Cina ha riabilitato il golf per la prima volta in via ufficiale, o meglio: lo ha declassato a uno sport come gli altri. “Essendo solo uno sport, non è né giusto né sbagliato giocarci”, si legge su Discipline Inspection and Supervision News, il giornale ufficiale dell’agenzia anticorruzione cinese. Soltanto pochi mesi fa, nell’ottobre 2015, l’agenzia, braccio armato di Xi Jinping nella guerra contro i funzionari corrotti, imponeva misure di comportamento draconiane agli 88 milioni di membri del Partito comunista, vietando loro di mangiare e bere “in modo eccessivo”, censurando le “relazioni sessuali improprie” e vietando, appunto, il golf.

 

Come ha raccontato Dan Washburn in un bel libro del 2014, “The forbidden game”, le fortune e le disgrazie del gioco del golf in Cina sono sempre andate di pari passo con le fortune del paese, e le due parabole, quella sportiva e quella della storia cinese recente, possono essere tracciate una di fianco all’altra. Vietato come attività borghese e, appunto, “da milionari”, il golf divenne più diffuso a partire dall’apertura del paese dopo la morte di Mao. Inizialmente furono inaugurati alcuni campi da gioco per intrattenere gli uomini d’affari stranieri, poi, tra gli anni Ottanta e Novanta, esplose la moda. Il golf era il simbolo del sogno cinese, di un paese in cui la ricchezza era finalmente a portata di mano e in cui tutti cercavano uno status symbol per testimoniare la loro nuova condizione. Lo stigma di Mao, paradossalmente, in quel periodo fece la fortuna dello sport: se sei milionario giochi a golf, lo ha detto il Grande timoniere. Centinaia di campi da golf furono aperti benché fosse illegale farlo, oggi sono tra i seicento e i mille, stima Washburn, e spesso la loro costruzione fu mascherata come “operazione ecologica”.

 

Anche per queste ragioni il golf in Cina continua a essere percepito come uno sport da ultraricchi: in un paese piagato dalla sovrappopolazione e dalla carenza di risorse naturali, interi boschi sono spianati, contadini sfrattati e milioni di metri cubi di acqua e sabbia sono usati per costruire nuovi campi da gioco grandi quanto piccole cittadine. Sui campi da golf si fanno affari e si contrattano influenze, ed è per questo che la nuova ondata proibizionista dettata da Xi Jinping ha nuovamente preso di mira i golfisti, simbolo di uno stile di vita “vanesio e corrotto”. Il Partito comunista non ha ancora digerito il golf, i giornali ufficiali sono pieni di duri ammonimenti che impongono ai funzionari di pagare le partite di tasca propria. Ma l’ultimo divieto è caduto. Viste le difficoltà economiche della Cina, tutto ciò che riguarda la ricchezza è benvenuto.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.