Perché nonostante tutto a Roma bisogna ancora guardare Nadal
“Caro Lendl, perché lei non ride mai?”. Il campione ceco, a questa domanda così indiscreta, rispose seccamente che non capiva cosa ci fosse di così divertente dentro un campo da tennis. Ivan Lendl aveva vinto Roland Garros, Australian Open, Us Open e Coppa Davis; era stato il numero uno al mondo ma questo non aveva importanza. Nel tennis non c’è proprio niente da ridere.
La prima volta che ha giocato al Foro Italico, nel 2005, Rafael Nadal sembrava un bambino indemoniato; aveva occhi scavati, e lo stesso sguardo che hanno i piccoli geni o le persone cattive. Ma Nadal non era cattivo, stava solo morendo dalla paura. Anche lui non sorrideva mai. Quell’anno arrivò in finale dove incontrò Guillermo Coria: ogni punto una sofferenza. Tutte le volte che lo spagnolo faceva un colpo, urlava, come se lanciare la pallina al di là della rete fosse una specie di liberazione. Cinque ore e un quarto di partita, a Nadal sanguinavano letteralmente le mani. Alla fine riuscì a vincere, come era già successo poche settimane prima nei tornei di Montecarlo e Barcellona.
Il giorno del suo diciannovesimo compleanno, il 3 giugno, sconfisse nella semifinale del Roland Garros Roger Federer. Il giorno dopo vinse anche a Parigi e, conquistando il suo primo torneo del Grande Slam, diventò il nuovo re della terra rossa. Federer rimaneva saldo sul suo trono, stava per cominciare Wimbledon e lui, ancora una volta, avrebbe fatto vedere come si gioca a tennis. Nadal rappresentava un’altra storia, completamente diversa. Aveva capelli lunghi perennemente in disordine, indossava magliette smanicate da cui uscivano braccia asimmetriche scolpite come il marmo. Un bello spettacolo? Non proprio. La Nike, il suo sponsor, aveva creato per lui una linea di abbigliamento che aveva come simbolo le corna di un toro, in campo Nadal sembrava un animale. Alcuni commentatori lo soprannominarono “il cavernicolo”. Niente a che vedere con David Foster Wallace e le sue esperienze religiose. E neanche con la leggerezza, o la morbidezza di certi rovesci. Rafael Nadal colpiva le palline come se fossero macigni. Nelle accademie di tennis, i maestri, sempre più preoccupati, lo osservavano attentamente per insegnare ai loro allievi a fare l’esatto contrario. Con i suoi diritti arrotati, i nervi contratti e gli scatti violenti, Nadal però aveva cominciato a vincere e non si sarebbe fermato per molto tempo.
Sulla terra rossa, nel 2005, il campione spagnolo non perse neanche una partita. L’anno dopo, esattamente dieci anni fa, nella finale degli Internazionali di Roma Nadal incontrò Roger Federer, che quell’anno era più forte del solito. “Circoletto rosso”, commentava meravigliato Rino Tommasi, mentre lo svizzero tirava rovesci a una mano con i piedi sospesi per aria, come se fosse del tutto normale. Per lui lo era, dato che durante quella partita ne avrà fatti mille. “Peccato che i suoi punti non valgano doppio”, chiosava Gianni Clerici. Già, un vero peccato. Dall’altra parte della rete, Nadal, il più possibile lontano dalle righe di fondo campo faceva quello che poteva: chilometri su chilometri per cercare di rispondere a tutta quella perfezione. Il tennis non è uno sport divertente, non per chi lo gioca. Il più delle volte è monotono e solitario. A ogni punto si ricomincia da capo. Federer, a volte, si concedeva qualche divagazione, cercava l’impossibile, il colpo da manuale, l’applauso del pubblico. Nadal, molto più concretamente, decise che l’unica cosa che doveva fare da quel momento fino alla fine della sua carriera era non sbagliare. Quando, dopo scambi interminabili, riusciva a costringere Federer all’errore, Nadal stringeva forte i pugni e, girandosi dall’altra parte per non infastidire il suo avversario, urlava con la paura che gli usciva dagli occhi: “Vamos”. Lo svizzero forse non sudava neanche, Nadal, che aveva la terra anche in mezzo ai denti, rimaneva in piedi solo grazie alla forza d’inerzia. Se nel tennis l’estetica avesse qualche valore, Federer non avrebbe dovuto perdere mai. Invece vinse Nadal anche quella volta, dopo 5 set e due tie break. Mentre alzava il trofeo con quei muscolacci e le calze, diventate ormai rosse come il sangue, qualcuno si consolò pensando che uno così, conciato in quel modo, almeno a Wimbledon, la candida cattedrale del tennis, non avrebbe potuto vincere mai.
A cosa serve il talento? Ivan Lendl, sempre lui, rispose che il talento, nel tennis moderno, non serve a niente. La perfezione neanche. Rafael Nadal, con i suoi tic fragili, i suoi colpi efficaci e innaturali ne è l’esempio. Tra il 2005 e il 2007 ha vinto 81 partite consecutive sulla terra rossa. E poi 9 Roland Garros, la Coppa Davis e tutti gli altri tornei del Grande Slam. Il cavernicolo ha vinto anche a Wimbledon, due volte. Vincendo il torneo di Barcellona, il 24 aprile scorso, ha conquistato il suo quarantanovesimo torneo sulla terra rossa, eguagliando lo storico record di Guillermo Vilas. E’ a Roma per cercare di vincere il suo cinquantesimo titolo e sa che sarà difficile. Tra pochi giorni compirà trent’anni e per uno come lui non sono tanti, sono tantissimi. E poi ci sono i nuovi cannibali, aggressivi e privi di fantasia: Djokovic, Murray, Kyrgios, Raonic, Thiem. C’è ancora Federer, meraviglioso ed eterno. “Nadal is Nadal” ha detto pochi giorni fa il tennista svizzero cercando di spiegare il personaggio. Tutta un’altra storia rispetto ai suoi colleghi, la loro perfezione quasi geometrica, la facilità con cui colpiscono la palla. Tutta un’altra storia rispetto a Federer e alle sue esperienze religiose. Per quelli come lui, il tennis è uno sport che ha a che fare con la fatica infernale, la paura perenne e con i nervi tesi. E poi tanta, tantissima terra.
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