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Champions, soldi e tv. I motivi del successo "povero" del calcio femminile

Francesco Caremani
La finale della Champions League femminile ha portato 18.000 persone al Mapei stadium di Reggio Emilia e ha occupato interamente la prima pagina dell'Equipe. Merito della vittoria del Lione, merito soprattutto di un accresciuto interesse internazionale. Ma in Italia (e non solo) il movimento stenta a crescere. Ecco perché.
“Abbagliante”. È così che L’Equipe ha titolato la prima pagina interamente dedicata all’Olimpique Lione femminile che si è aggiudicata la finale di Champions League di Reggio Emilia ai calci di rigore contro il Wolfsburg. Le transalpine hanno dominato per gran parte della partita, con un gioco spettacolare e con gesti tecnici di grande classe, soprattutto quelli del numero 10, la franco algerina Louisa Necib. Il quotidiano sportivo più autorevole di Francia festeggia così la terza coppa conquistata dall’OL, superando proprio le tedesche ferme a due. Il meglio del calcio femminile europeo (anche se il premio MVP se l’è aggiudicato la centrocampista giapponese Saki Kumagai): primo tempo perfetto, secondo evanescente, supplementari in ripresa e rigori decisivi, come nel 2011, quando dal dischetto il Giappone vinse il Mondiale contro gli Stati Uniti. Circa 18.000 gli spettatori allo stadio Città del Tricolore, grazie al coinvolgimento della città e al prezzo dei biglietti: 10 euro per le tribune, 7 per le curve, 8 e 5 se erano di gruppo. Assolutamente incomparabili con quelli della finale maschile, bagarinati last minute per 1.000 euro e oltre.

 

Di cosa parliamo, in termini numerici, quando parliamo di calcio femminile in Europa? Oltre un milione di giocatrici – sette Paesi ne hanno più di 60.000 (Inghilterra, Francia, Germania, Olanda, Norvegia, Danimarca, Svezia) – ci sono più di 3.000 arbitri donna e più di 13.000 allenatrici, in 49 stati c’è un campionato e 50 hanno la rappresentativa nazionale, circa 2.000 le donne impiegate (29 per cento). Solo in tre squadre nazionali le atlete però vengono pagate, altre diciassette danno una diaria a partita, ben undici non coprono nemmeno le spese alle loro giocatrici. E la copertura mediatica? Solo in tre federazioni i campionati sono trasmessi da televisioni a pagamento, in trentasette gratuitamente e in otto non esiste copertura televisiva. In quelle più evolute la presenza media allo stadio è di circa 3.000 spettatori, si scende poi a 1.000 in Italia, Spagna, Portogallo, per esempio, mentre la maggioranza si avvicina ai numeri che ognuno di noi ha vissuto nel calcio dilettante. Il budget delle 54 federazioni è di 96.724.824 euro, di questo il 24,99 per cento è per le nazionali, il 20 circa per i settori giovanili e la crescita del movimento, solo il 13,26 per cento per i salari.

 

 

E l’Italia? Secondo il report dell’Uefa la federazione investe nel calcio femminile 3 milioni di euro, contro i 9 circa della Germania: “Ma ai club italiani non arriva niente”, dice al Foglio Milena Bertolini allenatrice del Brescia, fresco vincitore del campionato, e tra le più titolate del calcio femminile tricolore. “In Germania le squadre di serie A ricevono 800.000 euro di contributi e quelle di B 150.000, da noi nemmeno le briciole dei diritti televisivi. Il problema? La mentalità, non è cambiato niente da quando Guido Ara (mediano della Pro Vercelli nei primi anni del Novecento, ndr) diceva che il calcio non è sport per signorine e quindi il movimento non cresce”, sottolinea Milena, una delle artefici della finale di Reggio Emilia: “L’arbitro poteva non esserci e questo credo sia un messaggio potentissimo, che clima e che giornata magnifica. Ecco, spero che i nostri dirigenti abbiano compreso cos’è il calcio femminile ai massimi livelli e come si fa”. L’O. Lione, campione d’Europa, investe 4-5 milioni di euro l’anno (più di quello che si spende in Italia), contro i 500-600mila del Brescia, che si affida esclusivamente a sponsor privati.

 


Milena Bertolini allenatrice del Brescia


 

La calciatrice che guadagna di più è la statunitense Alex Morgan, campionessa olimpica e del mondo che gioca per le Portland Thorns, con 450.000 dollari l’anno, che arrivano al milione grazie ai contratti con gli sponsor. Al secondo posto c’è la brasiliana Marta Vieira da Silva (Rosengard, Svezia) con 400.000 dollari, al terzo un’altra statunitense di origini canadesi, Sydney Leroux (Seattle Reign) con oltre 90.000. La collega di Nazionale Abby Wambach ne guadagnava 245.000 ma ha smesso di giocare nel 2014 e la bellissima, nonché ricercatissima dagli sponsor, Hope Solo (Seattle Reign) arriva appena a 65.000. La prima europea in questa speciale classifica è Nicole Banecki, tedesca di origini camerunensi, che milita nel Friburgo e che ha uno stipendio di 90.000 dollari.

 


Hope Solo (foto LaPresse)


 

In queste ultime settimane, negli Stati Uniti, si è aperto un aspro dibattito fra calciatrici e federazione sugli stipendi, molto diversi tra uomini e donne, una disuguaglianza che non trova nessun appiglio tantomeno nei risultati sportivi, dove quest’ultime sono nettamente più forti. “Anche sei i dati finanziari confermano che siamo la forza trainante del calcio statunitense la nostra proposta di compensi migliori è stata rigettata come non razionale e inaccettabile”, ha scritto la nazionale Carli Lloyd sul New York Times, annunciando battaglia e scatenando negli Usa una vera e propria guerra tra sessi, con il soccer a fare da cornice. Mentre in Italia Milena Bertolini (tra le altre cose curatrice del libro, riflessione, “Giocare con le tette”) spera che dopo lo spettacolo di Reggio Emilia non si spengano nuovamente i riflettori sul movimento. Molti uomini ritengono che il paragone sia improponibile e sicuramente siamo presi alla sprovvista da questa richiesta di spazio e attenzione, ma nella finale di Champions abbiamo visto gioco, forza, agonismo, qualità (tanta qualità) che non potranno essere sottaciute a lungo e che forse valgono la pena di essere raccontate, magari senza ripetere gli errori che hanno portato all’attuale narrativa del calcio maschile: isterica.

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