Il paradosso di mutilare il Tour perché c'è vento sul Ventoux
Comunque vada a finire, che sia spettacolo di scatti e attacchi o gioco di attendismo e difesa, il Tour de France oggi risulterà mutilato. La decisione dell'organizzazione di tagliare gli ultimi sei chilometri della dodicesima tappa, infatti, comporta questo, priva la corsa della sua cartolina, del suo evento speciale. E così sarà corsa terrestre e non lunare, comune e non eccezionale, perché in uno sport che sulle salite trova la sua normale espressione di bellezza, di scontro, il Mont Ventoux rappresenta da sempre un'eccezione.
Là in cima il Tour si è arrampicato quindici volte. Là in cima hanno trovato sole, quasi sempre, pioggia, vento. Là in cima in un modo o nell'altro ci si è sempre arrivato. Nel 1951, debutto assoluto, il Maestrale soffiava a 85 chilometri all'ora, la cima era coperta di nuvole e di polvere. Lucien Lazarides che scollinò davanti a Gino Bartali e si gettò in discesa al traguardo di Avignone disse: "Se avessi avuto un aliante mi sarei ritrovato in poco tempo a Marsiglia". Ieri il vento spirava a 100 all'ora. La cima era invasa dalla polvere come sessant'anni fa e il termometro segnava quattro gradi. "La situazione non permette di garantire la sicurezza ad atleti e tifosi", si è giustificata l'organizzazione. Una decisione che a valutarla con il buon senso non può essere altro che giusta, perché con folate così correre diventa quasi impossibile; una decisione però che allo stesso tempo rischia di essere lesiva della storia di questo sport, imbarazzante se si ritorna con la memoria alla bufera di neve che ha segnato la scalata del Passo Bondone nel 1956 e del Passo di Gavia nel 1988 al Giro. Lì Vincenzo Torriani, patron della Corsa rosa, non fermò la tappa, costrinse i corridori a salire. Superare i duemila metri a maggio è un rischio che il Giro e gli atleti dovevano assumersi. Lo stesso che non si è assunto l'organizzazione del Tour ieri. Christian Prudhomme, direttore della corsa, ha tagliato gli ultimi chilometri senza nemmeno aspettare il nuovo giorno, senza prendere nemmeno in considerazione l'eventualità di un doppio arrivo da scegliere in base alle condizioni atmosferiche. E così la beffa è arrivata, il Maestrale spira a 45 chilometri all'ora e il Ventoux sarà comunque monco. Troppo grande è il teatrino che va infiocchettato per rendere la corsa scintillante e ammiccante a sponsor e televisioni. E quindi meglio rinunciare a quest'ultima che al primo. Rimane una domanda: ma che senso ha inserire in percorso qualcosa di unico se poi prevale la prudenza perché tutto deve andare bene e il Tour essere un gioiellino senza macchia? Si rinunci piuttosto del tutto all'eccezionalità se non si può garantirne la riuscita.
La situazione in cima al Mont Ventoux di oggi secondo il meteo francese
Basta guardarlo da lontano per capire perché questa salita non potrà mai essere qualcosa di normale. Nella Provenza dolce e collinare, gialla di grano e girasoli, verde di viti e di boschi e viola di lavanda, si erge severo un gigante smeraldino sormontato da un cappuccio di nubi, che una volta sparito lascia intravedere un cranio grigio. I boschi di conifere lasciano a un tratto spazio al niente. Non c'è continuità, lo stacco è netto. Il limite è appena sotto i millecinquecento metri, il limite è a sei chilometri di strada dalla vetta, una striscia di asfalto senza nemmeno un metro d'ombra, perché lassù nulla cresce se non licheni e muschi che si trovano solo in Groenlandia e nelle isole artiche della Norvegia. L'ambientazione è spettrale, il clima inumano. Una pietraia spazzata dal Maestrale, che in estate diventa forno se non spira – la temperatura può arrivare anche ai quaranta gradi –, che in estate si abbassa anche allo zero termico se il vento riprende il loro posto e spinge lassù, oltre i 1.912 metri della cima, nubi e pioggia.
Il paradosso è sospendere per vento l'ascesa di un monte che deve il suo nome al vento. E' calvo per questo, è luogo tutt'altro che ameno, scalarlo è un viaggio dalla bellezza alla desolazione, è antidantesco. Petrarca, che tracciò la prima via a noi giunta per la cima, salendo incontrò l'incanto del bosco e l'asprezza della solitudine, si arrampicò "con somma fatica senza scorgere da nessuna parte un sentiero più dolce; la via, invece, cresceva, e l’inutile fatica mi stancava".
Per Roland Barthes il Ventoux era un Moloch che esigeva sacrifici umani. Il suo sacrificio il ciclismo lo compì nel 1967 quando il campione britannico Tom Simpson si piegò al caldo asfissiante e alle anfetamine, crollò sull'asfalto e salutò la bici e il mondo per sempre.
Per Jacques Prévert un atto d'amore alla follia. Come quando nel 1955 Ferdy Kubler, svizzero trionfatore in Francia nel 1950 e al Mondiale del 1951, si accasciò in cerca di ossigeno a tre chilometri dalla vetta. Stremato riprese la bicicletta, ma nel senso opposto e, pompa alla mano, iniziò a scacciare i draghi che solo lui vedeva. Lì chiuse il suo Tour e con le corse di tre settimane.
Per Jean Cocteau era luogo "dove il misticismo diventa unica possibilità di salvezza". Come nel 1970 quando Daniel Van Ryckeghem arrivò in cima in trans, occhi sbarrati e sguardo perso sostenendo di vedere la Madonna e di volerla seguire sino a Parigi.
Sacrifici, follia e misticismo si arrampicano negli ultimi sei chilometri, lì vanno a braccetto, accompagnano l'ascesa dei corridori. Sino ai 1.435 metri di Chalet Reynard, lì dove finirà questa volta la tappa, il Ventoux è salita dura – dieci chilometri a oltre il nove per cento di pendenza media e con punte massime al venti – ma umana. La disumanizzazione iniziava dopo, tra le pietre, quando la strada diventa più morbida e il clima spietato. Strada che i corridori non faranno oggi.