Tabù olimpici
Un perdente australiano del badminton sfata l'alimentarmente corretto a Rio
“Adesso è il momento di mangiare un po’ di cibo spazzatura, dopo mesi di cibo pulito!”. L’olimpionico australiano di badminton Sawan Serasinghe ha vissuto l’eliminazione dai Giochi (anche) come una liberazione. Invece di scrivere pesanti e amletici post sul mazzo che si era fatto per prepararsi a Rio, ha preferito farsi fotografare davanti a sei hamburger, altrettante porzioni di patatine fritte large, quattro confezioni di crocchette di pollo, sei dolci al cioccolato, un frullato, una bibita gasata e parecchie dosi di salse. Per la gioia – e sicuramente l’interesse – di McDonald’s, catena di fast food sponsor dei Giochi olimpici da quarant’anni.
Australiske badmintonspelaren Sawan Serasinghe gjorde en liten Donken-beställning efter att ha blivit utslagen i Rio pic.twitter.com/R4Dfx8z0ev
— Unibet Sverige (@Unibet_Sverige) 15 agosto 2016
Serasinghe non deve più gareggiare alle Olimpiadi, si dirà, può permetterselo. Sicuro, eppure qualche giorno fa la stampa anglosassone è andata a curiosare proprio al McDonald’s che c’è nel villaggio che ospita gli atleti impegnati a Rio, e ha trovato una coda lunga cento metri fuori dal ristorante: stufi di mangiare sempre le stesse cose, gli olimpionici hanno ordinatamente preso d’assalto il fast food comprando più panini che insalate e più bibite che succhi di frutta. Probabile che neppure la noia della settimana di ferragosto riesca a trasformare il post dello sfortunato giocatore di badminton in una polemica da ombrellone, ma certo fa sorridere che questa pubblicità non troppo alimentarmente corretta arrivi nei giorni dei titoli sulle “cicciottelle” e di quelli, più seriosi, sul fatto che l’8 agosto gli abitanti della Terra avrebbero già consumato tutte le risorse consumabili dell’anno, almeno secondo i calcoli dei sedicenti protettori verdi del pianeta.
C’è naturalmente chi si è affrettato – più con lo stile “strano ma vero” che con intenti propagandistici – a stilare classifiche deigli atleti vegani in gara a Rio. Il più curioso è Kendrick Farris, unico americano in gara per il sollevamento pesi: Farris ha scelto la dieta vegana nel 2014 perché contrario alle macellazioni di massa degli animali e perché voleva dare un buon esempio ai suoi figli. A maggio ha stabilito il record statunitense di categoria, ma alle Olimpiadi si è classificato soltanto undicesimo. Al momento quella vegana resta dunque una colorita ma sparuta pattuglia nel grande numero degli atleti, più o meno vincenti, che partecipano ai Giochi. Certamente non vegana è la campionessa olimpica coreana di tiro con l’arco Ki Bo Bae, insultata sui social network dalla madre dell’attrice Choi Yeo Jin dopo la sua medaglia d’oro. Colpa di una vecchia intervista in cui il padre di Ki Bo Bae, nel 2010, diceva che se la figlia era diventata così forte nella sua disciplina era stato grazie a tutta quella carne di cane mangiata fin da piccola. La signora ha però dovuto cancellare il post e chiedere pubblicamente scusa all’atleta. Il cane in Corea non si porta più come una volta, ma una medaglia d’oro è pur sempre una medaglia d’oro.
@glfelicetti @RaiTv e di questa #KiBoBae invece che vogliamo dire ? Nessun commento? pic.twitter.com/Fj2T6VWHHh
— Greta (@GretaAstpc) 13 agosto 2016
Ma torniamo al fatidico 8 agosto, giorno dopo il quale il mondo starebbe consumando più quello che gli sarebbe consentito dal pianeta stesso. Che sia di cane o no, secondo i vegani (e non solo), mangiare carne fa male al pianeta perché obbliga a consumare troppe risorse tra allevamenti, macellazione, produzione, trasporto e conseguenze gassose degli umani che la digeriscono. La soluzione? Fare come Kendrick Farris e diventare tutti vegani, naturalmente.
Se ne discute in questi giorni sul Guardian, dove il 9 agosto George Monbiot spiegava di essersi convertito al veganesimo per ridurre il proprio impatto sul mondo. Mondo che, secondo una ricerca citata da Monbiot, potrebbe anche arrivare a contenere 10 miliardi di persone, ma “solo se smetteremo di mangiare carne”. Diffidare sempre dalle soluzioni troppo facili aiuta, anni di “basta ridurre le emissioni di CO2 per abbassare le temperature globali” dovrebbero averlo insegnato anche ai migliori. “Sarebbe bello se fosse così facile”, replicava ancora sul Guardian Jimmy Smith, direttore generale dell’International Livestock Research Institute, ma “il veganesimo non è la soluzione per la sostenibilità”. Non è smettendo di consumare carne, latte e uova che salveremo il pianeta, anzi. Nel suo lungo articolo, con citazioni di recenti studi scientifici, Smith dimostra con eleganza come il veganesimo sia un tic diffuso quasi esclusivamente nei paesi ricchi, là dove vi è un eccesso di cibo. “Una ricerca pubblicata negli Stati Uniti il mese scorso – riporta Smith – ha analizzato dieci diversi modelli alimentari e ha concluso che le diete che incorporano alcuni alimenti di origine animale (soprattutto latte e uova) utilizzano meno terra rispetto ai loro corrispettivi vegani”. Ci sono territori dove l’allevamento del bestiame è l’unica possibilità di sfruttamento del terreno (il 60 per cento dell’Africa sub-sahariana, per esempio): se le popolazioni di quei luoghi fossero vegane non avrebbero nulla da mangiare. Senza contare che oggi almeno un miliardo di persone, per la maggior parte donne, vive grazie agli animali domestici: mucche, capre, pecore, maiali e pollame sono fonte di reddito oltre che alimenti più nutrienti, specialmente per i bambini, rispetto a cereali e tuberi. Vogliamo davvero impedire a una famiglia africana o asiatica, si chiede Smith, di allevare polli o mucche da latte in nome di una battaglia ideologica basata su un ipotetico calcolo del consumo delle risorse del pianeta?