Il terremoto e il diavolo della Forca Canapine che spaventò Gino Bartali
La Forca Canapine è confine. Da una parte le Marche, dall'altra l'Umbria. E' vetta, 1.500 metri e poco più, un panettone coperto di faggi, roveri e aceri montani che diventano prati a pochi chilometri dal piano finale. E' inizio, almeno per quanto riguarda i monti Sibillini, al di qua il Piceno, al di là il Monte Vettore. Per anni è stata ciclismo, ma di contorno, vetta appenninica buona soltanto per rodare la gamba in vista di cime più illustri. Ora è più che altro cronaca, luttuosa, terribile. Sotto i suoi pendii, tra le sue rocce, si sono propagati decine di terremoti. Alle sue pendici ad est c'è Arquata del Tronto, a sud c'è Accumoli, paese nei pressi del quale ha avuto epicentro il sisma più forte, quello di magnitudo 6 che ha sconquassato il reatino, ha fatto crollare Amatrice, Arquata ed Accumoli stessa.
Norcia, Capodaqua, Castelluccio, Acquasanta Terme si trovano in un fazzoletto di terra, attorno alla Forca. Dicevano poco a molti, almeno sino a mercoledì. Erano luoghi spersi e sparsi in quell'Appennino remoto, che quasi mai fa parlare di se. Piccoli borghi, poche migliaia di abitanti. Luoghi di pastorizia e raccolta, funghi soprattutto, cime che nemmeno nella piccola storia del ciclismo hanno mai trovato uno spazio eroico: l’epica si è sempre fatta altrove. Perché meno dure e altisonanti delle Alpi, perché lì nel centro Italia le strade per decenni e decenni erano poco più che mulattiere, alla gente di questo sport gliene fregava il giusto e di passi da dipingerci imprese non ce ne sono.
Il Giro scoprì queste zone negli anni Venti. Nel 1921 la corsa rosa scalò per la prima volta la Forca. Perugia-Chieti, 326 chilometri. Transitò primo Bartolomeo Aymo. A Chieti vinse Costante Girardengo, il primo Campionissimo della storia del ciclismo italiano, ma il Giro lo conquistò Gaetano Belloni. Ma fu un altro a trovare qui patria, seppure momentanea. Si chiamava Giuseppe Enrici, era nato a Pittsburgh da genitori piemontesi e in Piemonte ci era ritornato bambino. Aveva scelto la bici perché in sella andava forte e perché era meglio pedalare che fare il muratore. Ad Acquasanta Terme c’era finito per caso. Per sistemare la villa di un nobiluomo torinese che lì aveva origini materne alla fine degli anni Dieci. C’era ritornato ormai corridore, ospite del conte, per curare con l’acqua sulfurea, alcuni problemi respiratori. Lì preparò la corsa rosa del 1923. Fu sesto nonostante il faticoso gregariato per il capitano alla Legnano, Giovanni Brunero. Ci ritornò l’anno dopo e quell’edizione la vinse. Era un Giro monco dei grandi, era il Giro di Alfonsina Strada, l’unica donna a correre con gli uomini. Fu il suo capolavoro. Proprio sulla Forca spiccò il volo, bissando il successo del giorno precedente a L’Aquila. Primo con 40 minuti di vantaggio sul secondo. La corsa era sua.
Giuseppe Enrici
Eberardo Pavesi, il direttore sportivo della Legnano, rimase impressionato dal rendimento di Enrici. Gli chiese come avesse fatto. Il corridore ripose: “Ha fatto il miracolo Acquasanta”. Enrici si ritirò nel 1928, Pavesi continuò seduto in ammiraglia sino al 1966. Nel 1946 si ricordò delle parole del suo ex atleta. Sarebbe servito un miracolo per rimettere in sesto uno dei suoi uomini di punta e decise di spedirlo ad Acquasanta per farlo allenare. Quell’uomo era Aldo Bini, uno che in gioventù, da dilettante, menava a ogni salita Gino Bartali, ma che poi si era perso per strada tra troppe donne, troppe feste e qualche bottiglia di troppo. Aldo era un buon uomo, simpatico e intelligente ma poco incline al sacrificio. L’Avucatt, il soprannome di Pavesi, sperava che nella quiete appenninica si ritrovasse. Promise all’atleta “le più belle donne delle Marche e gli osti più generosi, ma trovai quattro case, poco cibo e strade che erano ancora maciullate dalla guerra. Mandai talmente tante maledizioni a quel brav’uomo che non so come sia riuscito a campare così tanto”, confidò a Mario Fossati, raffinata penna della Gazzetta, qualche anno dopo.
Bini sotto la Forca Canapine rimase solo qualche giorno. Ma non fu la vita ritirata a farlo scappare. Fu il Diavolo. Bini era credente a suo modo, aveva sempre un crocifisso in borsa, un santino nella maglia, ma più per scaramanzia che per altro. Bini era biscaro, toscanissimo, e la vita la viveva per i piaceri che questa gli offriva. Nella primavera del 1947 preferì farsi Arquata del Tronto-Prato, 300 chilometri, da solo, pur di rimanere lì. “Su quella salita (la Forca Canapine), che era una come tante, nemmeno troppo difficile, sentii il Diavolo. La stavo scalando, forte, quando un boato mi fece tremare le budella. Tutto tremò e mi presi una fifa tale che mandai a quel paese tutti e me ne tornai a casa che io a morire per la bici col cavolo che ci stavo”, riporta sempre Fossati.
Una paura totalizzante. Nel Giro del 1947 si doveva passare da quelle zone nella settima tappa, la Perugia-Roma, 240 chilometri. Bini chiese agli organizzatori di cambiare percorso. Gli organizzatori rifiutarono. Lui decise di non partire da Perugia. Se ne tornò a casa. E poco importava se il suo capitano, Gino Bartali, si stesse giocando il Giro con Fausto Coppi. Lui su quelle strade non sarebbe più tornato.
Ginettaccio si arrabbiò con il compagno. Non gli rivolse per mesi la parola. Lo perdonò solo a luglio. “Arrivò trafelato che ero fuori della stazione gridando ‘non andare, non andare’. Gli chiesi perché – raccontò nel 1966 a Rino Negri -. ‘Perché lì c’è il Diavolo e non scherzo. L’ho sentito, è tutto un tremolio. Non andare te ne prego. Se vai lì scordati il Giro di Svizzera. Resta qui, ci alleniamo insieme e lo vincerai’. Decisi di ascoltarlo. Mi sembrava sincero”. Gino vinse in terra elvetica (all’epoca la corsa a tappe più ricca del panorama mondiale) e si riappacificò con Bini.
Ora quel Diavolo che spaventò Aldo Bini, è tornato, si è palesato con tutto il suo fragore.