Andrea Belotti, il tesoro di Cairo
Poco più di un anno fa erano tutti lì a darsi di gomito, a sorridere di quei sette milioni e mezzo pagati dal Torino per acquistare Andrea Belotti dal Palermo. La convinzione comune era che Urbano Cairo avesse preso una mezza cantonata: buon giocatore, sì, e di prospettiva, certo, visti i 21 anni e mezzo. Ma non tale da meritare quella cifra (neppure ragguardevole poi, se paragonata con altri movimenti dello schizofrenico mercato italiano), visti i soli sei gol realizzati con la squadra siciliana, per un rapporto costo-rendimento decisamente alto. Convinzioni ulteriormente rafforzate da un complicato inserimento nei meccanismi granata, da partite mai cominciate o mai terminate e da un dialogo conflittuale con la porta altrui.
La fortuna di Belotti è stata quella di avere come tecnico Giampiero Ventura, uno che ha sempre preferito allenare i giocatori e non i giornalisti, uno dotato di pazienza, come tutti gli uomini di mare. Uno che ha creduto nelle qualità di questo centravanti di una volta, che sembra nato in un'epoca sbagliata per caratteristiche: coraggioso, tosto fisicamente, pronto a colpire in area. Uno da vecchio cuore granata, per l'appunto. La pazienza è stata ripagata, tutta nel 2016, quando Belotti ha finalmente indossato la maglia da titolare dal primo all'ultimo minuto. Le prestazioni sono salite di tono e le reti sono giunte a quota dodici, senza però convincere il manipolo dall'eterna puzza al naso: sì, ma quattro le ha segnate su rigore… E allora Belotti ha deciso di sparigliare sbagliandoli, i rigori. Due in due giornate di campionato. Il primo (doloroso) ha negato il pareggio a tempo scaduto in casa del Milan, il secondo (perdonabile) è arrivato sul 4-1 contro il Bologna: un errore tale da provocare l'inevitabile arrabbiatura di Sinisa Mihajlovic, subito anestetizzata dal gol del 5-1, il terzo di serata nella nuova vita del centravanti. Perché Belotti sbaglierà dagli undici metri, ma è diventato implacabile quando si muove: quattro reti in in 180 minuti lo propongono come rivelazione della Serie A. Ventura, che lo conosce a fondo, lo ha chiamato nell'avventura con l'Italia. E Cairo, che prendevano per i fondelli ignorando la sua storia da imprenditore, pensa già a come far fruttare bene quei sette milioni e mezzo. Come capitato in questi anni di Torino.
Un cammino lineare che non è pane quotidiano in casa Roma. A Cagliari l'ultimo esempio, con una squadra ritoccata in continuazione da Luciano Spalletti, fino alla confusione generale in grado di generare l'insperata rimonta dei padroni di casa, andati sotto di due reti nel giro di 46 minuti. Una confusione andata a coinvolgere anche l'uomo in questo momento più rappresentativo, ovvero Alessandro Florenzi. Uno che si danna sempre l'anima per la squadra per cui tifa e in cui è cresciuto, uno andato a sbagliare in maniera banale l'appoggio all'origine del 2-2 finale. E' la maledizione della fascia, quella che dovrebbe essere forse ritirata il giorno in cui Francesco Totti staccherà la spina dal calcio. O che, meglio, dovrebbe essere affidata a un “non romano”, visti gli influssi negativi generati in chi è nato nella capitale. Stiamo solo ai tempi recentissimi: Daniele De Rossi la indossa contro il Porto e si fa cacciare per un intervento che pone una pietra tombale sulla Champions League; Florenzi viene scelto al posto del centrocampista a Cagliari e perde il senso delle proporzioni nel momento decisivo della partita. Una croce, più che una responsabilità.