L'anima inglese del Chievo Verona di Maran
Jack O'Malley non ci accusi di blasfemia, ma se si dovesse indicare la squadra più “inglese” nel campionato italiano, questa dovrebbe essere il Chievo. Meglio, più “londinese” che “inglese”. Perché, come capita nella capitale britannica, è espressione di una parte ben identificata della città. Lasciate perdere Milan o Inter, Roma o Lazio, Juventus o Torino, persino Genoa o Sampdoria. Sono tutte squadre che vanno oltre. Nel senso che la loro esistenza non ha radici ben definite in un luogo. Invece il Chievo è come un Chelsea, un West Ham, un Crystal Palace. Una frazione divenuta un quartiere di Verona, nota sola per il ponte-diga sull'Adige e perché qui morì il pittore Umberto Boccioni, disarcionato da un cavallo.
C'è voluto – come al solito – il calcio per condurlo agli onori del mondo. Quello che dai dilettanti ha portato il Chievo fino alla serie A, sempre nel segno di una famiglia e di un'azienda, i Campedelli e la Paluani. Pandori e panettoni, ovviamente. Un testimone che Luca ha preso da Luigi, il padre morto improvvisamente nel 1992 diventando, allora, uno dei presidenti più giovani. Giovane ma non sprovveduto perché, passo dopo passo, il Chievo è diventato presenza consueta in serie A, senza troncare il legame con il quartiere, e oggi siede, provvisoriamente o meno, alla tavola dei grandi. Una squadra fatta di gente di una certa età, con stranieri presi rigorosamente già ambientati da noi, con personaggi singolari come Riccardo Meggiorini l'attaccante che, pochi giorni fa, sente in piena notte delle urla per strada: scende e mette in fuga un tipo che stava aggredendo una ragazza, perché “i miei genitori mi hanno insegnato a essere altruista”. Come insegna Rolando Maran al Chievo, dove il gruppo va oltre il singolo. Un allenatore solido come era in campo: difensore centrale e quindi pronto a tappare i buchi che altri aprivano. Uno che si è sempre rialzato dalle batoste come quando, a Brescia, Gino Corioni lo caccia con la squadra vicina alla zona promozione: il presidente voleva anche lo spettacolo e chiama Zdenek Zeman. Risultato? Sette sconfitte in 11 gare e addio serie A. Maran non ha mai vinto nulla, però ha salvato. Lo ha fatto a Trieste, lo ha fatto a Vicenza, lo ha fatto (molto bene) a Catania. Lo fa al Chievo, ma con qualcosa in più perché, in due stagioni, la Serie A viene sempre confermata con largo anticipo. Logico, quindi, che a 53 anni si voglia provare qualcosa di differente e quest'estate il divorzio sembrava cosa fatta. Poi non sono arrivate proposte convincenti mentre il Chievo non ha mai cercato seriamente un'alternativa. E Maran è rimasto, con una squadra pressoché immutata, con i suoi vecchietti, con i suoi stranieri-non stranieri. Al terzo posto, in attesa di andare sabato a Napoli per vedere l'effetto che fa.
Ultimo, ultimissimo è invece il Crotone. Che la prima serie A della storia avrebbe potuto essere difficile, lo si sapeva: Carpi e Frosinone sono esempi recenti. Ma che l'inizio potesse essere così complicato, forse no: un punto e undici reti al passivo. Un'avventura in cui Davide Nicola si è imbarcato con l'abituale entusiasmo, senza però essere riuscito finire a mettere le pezze necessarie. La squadra appare non all'altezza, mancano uno stadio (lo Scida è in fase di ristrutturazione, si gioca nel vuoto di Pescara) e il conseguente appoggio del tifo, le prospettive non sono incoraggianti perché, tolta la Roma, le avversarie finora incontrate erano tutte all'altezza dei calabresi. Ritardi sulla tabella di marcia iniziati proprio dove non dovevano cominciare, dalla panchina. Perché a Nicola si è arrivati dopo un sofferto divorzio da Ivan Juric e dopo un tortuoso casting di vari candidati, perdendo il passo rispetto alla concorrenza e completando il gruppo nelle ultime affannose ore di mercato. Complicato venirne fuori, anche per un entusiasta come Nicola.
Il Foglio sportivo - IL RITRATTO DI BONANZA