Applausi a Icardi e Ranocchia e a chi si ribella contro gli smerdatori da circo
La rivolta degli idoli è una cosa meravigliosa, un’epica che chiama stupore e ammirazione. Almeno per me. Da molti anni l’Inter se la tira con la pace, la gauche, e tra un Gino Strada e una Bedi Moratti fa la sciantosa del tifo-chic (le mie scuse a Cerasa e a Crippa per la disinvoltura dei giudizi e la perentorietà faziosa della tesi che espongo). Ora dicono che Icardi è un bauscia sconsiderato e che la società cinese è un padrone anarchico che non sa censurare le autobiografie dei giocatori (Mario Sconcerti). Very liberal. Io per me ho molto apprezzato il brano dello scritto icardiano, il suo guanto di sfida lanciato alla Curva nord, la sprezzante e minacciosa denuncia (suicida, magari) del disprezzo altrui, l’argentinismo stradaiolo (non tutti a Buenos Aires hanno la stoffa irenista di un Bergoglio, sebbene il Papa sappia evocare il pugno duro quando vuole) che lo ha consigliato di convocare cento ceffi del suo paese per sterminare a uno a uno i suoi smerdatori da circo. Della rivolta fa parte, in senso rovesciato ma convergente per la sua dolce violenza, la carezza che Riccardo Montolivo ha promesso a chi gli augura la morte per un incidente in campo. E naturalmente la sublime capacità di Ranocchia di elaborare il lutto, perché lo fischiano e lo deridono appena prende la palla, con l’aiuto di santoni o di personal trainer psicologi.
Ma non tutti porgono l’altra guancia, non tutti colgono nella loro umiliazione un’occasione per crescere spiritualmente. Maurito è fatto così: occhio per occhio, homme révolté, beniamino che scatena il suo carisma contro la propria famiglia. Pare gli vogliano fare adesso delle multe o che so io, una ramanzina, e spero che lui resista. Gli assediano la casa e lo minacciano: spero la polizia gli badi, almeno quanto bada ad altre stelle meno iconoclaste e meno simpatiche.
Il calciatore in bianco e nero della mia adolescenza era un tizio simpatico ma gramo, povero, gran lavoratore dell’umiltà anche quando brillava oltre il confine dell’umano, uno che obbediva al mister in tutto e per tutto, movimento dopo movimento, parola dopo parola, e di parole ne diceva poche e scontate, non aveva autonomia, capacità di commento, la sua era un’idea del calcio come negazione del Sé. Erano remissivi, in generale e con poche eccezioni. Si diceva che l’arbitro Lo Bello avesse apostrofato così Gianni Rivera, senza apprezzabili conseguenze: “Alzati golden boy di merda”. Chissà, forse è una antica leggenda da stadio. Ho letto il bon mot di un allenatore argentino: io li piazzo bene in campo, il problema è che poi si muovono. Geniale presa d’atto della democratizzazione, relativa, del calcio a colori, ricco e in alta definizione. La scazzottata proposta agli ultras da Icardi, perché uno di loro aveva tolto la maglia regalata a un bambino e gliel’aveva risputata sulla gobba a lui, all’idolo, mi sembra il giusto contrappasso per il tifo salottiero di Emergency e compagnia. E voglio perfino pensare, da quel pazzo che sono e ovviamente per assurdo, che abbia sbagliato apposta il rigore con il Cagliari e che la sua disperazione in campo, per quel tiro così goffo, sia stata una finzione scenica di prima qualità. Ma non è così.
Un amico che sa di calcio mi dice che l’interazione tra la cattiveria della curva e la capacità di gioco degli idoli è fortissima, sbagliano perché i tifosi li fischiano e magari gli augurano la morte, ciò che è accaduto effettivamente in uno di quei paesi della rumba in cui un calciatore è stato freddato con il moschetto per aver smarronato imperdonabilmente in una circostanza decisiva. Adorabile l’applauso degli interisti buoni, che hanno capito la situazione, al rigore fallito. Voglio un mondo in cui i curvisti riservano le loro attenzioni agli avversari, e non si adontano per eccesso di sensibilità e di suscettibilità quando l’idolo gli replica a muso duro, e li prende a schiaffi “uno per uno”.