Fabian Cancellara al foglio di firma durante la Tirreno-Adriatico del 2014 (foto LaPresse)

A Gand il saluto di Spartacus. L'addio al ciclismo di Fabian Cancellara, l'ultimo romantico

Giovanni Battistuzzi
Il campione svizzero aveva annunciato il ritiro a marzo, ieri ha smesso con la bicicletta dopo sedici anni di carriera, sette Classiche monumento vinte e duemila metri corsi con Bradley Wiggins in Belgio. Passò professionista nel 2001, ma fu nella Parigi-Roubaix del 2006 che il mondo delle due ruote a pedali si accorse del suo immenso talento.

Rue de la justice. Milleottocento metri, un angolo retto a inframezzarli, due rettilinei dritti come un muro, duri come un muro, divisori. Da un lato campi di grano, dall’altro pure. Da un lato qualche boschetto a delimitare appezzamenti diversi, dall’altro prato a far lo stesso. In mezzo una via, che non mette in comunicazione un bel niente, vuoto per vuoto, spazio per spazio. Non una strada, un crinale. Due fossi paralleli, in mezzo un ammasso di blocchi di porfido, impiantati alla bell’e meglio nella terra, irregolari, sobbalzanti. Lo chiamano pavè, sta lì da secoli, e da secoli viene maledetto. Poi inventarono le biciclette, capirono che correrci sopra era una cosa folle e da allora le maledizioni si tramutarono in attese, molte volte amore.

 

Rue de la justice. Milleottocento metri, da Camphin en Pévèle a Camphin en Pévèle, angolo retto in un paesino che fa da ipotenusa. Nord della Francia che odora di Fiandre. Duecentotrentanove chilometri sulle gambe, venti chilometri esatti da Roubaix, che è non solo arrivo, è conclusione, tempo di mettere in cantina i blocchi di porfido e guardare alle Ardenne, cioè Vallonia, cioè l’altro Belgio. Ma è l’anno del Signore 2006. Ed è l’inizio di tutto.

 

Rue de la justice. Cinquanta metri all’angolo retto. Gli occhi di tutte le Fiandre sono fissi su un solo corridore. Si chiama Tom Boonen, indossa la maglia di campione del mondo e per tutti è l’Eletto. Il ciclista che dominerà in lungo e in largo il pavè nei successivi dieci anni. L’anno prima aveva vinto Giro delle Fiandre e Parigi-Roubaix, non solo due corse, ma due feste nazionali. Quando si corre il Fiandre, le Fiandre si fermano. Quando si corre la Roubaix quasi. Ma solo perché è Francia, altrimenti sarebbe di nuovo vacanza per tutti. E’ il 9 aprile, e sette giorni prima l’Eletto aveva bissato il successo alla Ronde. Tripudio. Tutti sono convinti che sia bis, perché Tom ha la gamba che frulla che è una meraviglia e la cattiveria nello sguardo. Davanti sono rimasti in otto. E le telecamere inseguono l’iride del fiammingo. Lo scrutano, attendono una sua mossa. E quando lo vedono accelerare c’è un sobbalzo, la sensazione che ecco questo il momento. Boonen però non parte, insegue. Non vola, rincorre. Non si invola, maledice. Perché davanti all’Eletto ha iniziato a pestare sui pedali un lungagnone con i capelli lunghi e il viso che sembra un blocco di porfido. Uno che viene dalla Svizzera, ossia posto per discreti scalatori, qualche sprinter matto e poco più, mica luogo per equilibristi del pavè. Uno che va forte contro il tempo, che a cronometro ha vinto, ma il Nord è un’altra cosa, è luogo dove pedalare è arte, non solo mera potenza. Uno che, mentre l’Eletto insegue, ha fatto il buco e da lì a poco farà il vuoto. Uno che al velodromo di Roubaix ci arriverà solo, centonove secondi prima di Boonen. Prima Roubaix, prima Classica monumento, ossia il massimo per prestigio e tradizione che il ciclismo ha da offrire nelle corse di un giorno. Uno che si chiama Fabian Cancellara e che all’Eletto darà più di un grattacapo.

 

 

Dal 9 aprile 2006, dall’epifania sul settore di Camphin en Pévèle, sono passati oltre 10 anni. Sono passati una Milano-Sanremo, 2008, altre due Roubaix, 2010 e 2013, tre Giri delle Fiandre, 2010, 2013, 2014, quattro mondiali a cronometro, due ori olimpici sempre contro il tempo. Fabian è passato da essere speranza a essere certezza, da essere meccanico, il Treno di Berna, a essere storico, Spartacus. Soprattutto da essere corridore, a essere un ex corridore. Doveva chiudere in autunno, ha chiuso prima: all’Olimpiade, ultima gara, ultima vittoria, oro olimpico. Due settimane fa l’ultima sgambata, il criterium conclusivo della Japan Cup, non una corsa, una passerella. Questa settimana l’addio: definitivo e inappellabile. “È stato un piacere, ringrazio tutti per il sostegno avuto nel mondo intero durante questi ultimi sedici anni”. Conclusivo però solo da oggi. Perché la bici non si lascia mai davvero e Gand, Fiandre, non è un luogo che si può rifiutare. E allora due chilometri, percorsi a tutta con Sir Bradley Wiggins, inglese, campione immenso della pista, trasformatosi per un paio di anni in campione anche su strada: primo inglese a vincere il Tour de France, che era tanta roba, almeno prima di Chris Froome.

 

 

Cancellara lascia perché era ora, perché “il ciclista è testa e fisico, ma soprattutto testa e quando quella ti dice che è ora, bisogna accettarlo”. Cancellara lascia perché tre Fiandre e tre Roubaix sono molte, non abbastanza forse, perché uno come lui altrettante ne poteva vincere, ma sono sufficienti. Cancellara lascia, e questo non lo dirà mai, perché a 36 anni si può ancora essere competitivi, si può ancora vincere, ma si corre il rischio di non farlo, soprattutto se al Nord c’è uno come Peter Sagan, che è fenomeno vero. E allora meglio salutare tutti con un oro al collo e l’incertezza nella mente che “se c’era Spartacus chissà come finiva”.

 

Cancellara secondo Aldo Sassi, lo storico preparatore della Mapei, era stato preso dalla squadra per farlo diventare un “nuovo Indurain”. Fisicamente era un portento. Alvaro Crespi, che alla Mapei faceva il general manager, sosteneva che “un motore del genere non l’ho mai visto”. Per Eddy Merckx “avrebbe potuto vincere qualsiasi corsa”. Avrebbe dovuto cambiare struttura fisica, perdere peso e guadagnare in agilità. Un percorso intrapreso da molti: Wiggins il caso più emblematico. Un cambiamento che però lo avrebbe reso diverso. Cancellara era colui che partiva e non lo si poteva più prendere, perché non si poteva raggiungere uno con quattro pistoni per quadricipite.

 


Fabian Cancellara durante la Parigi-Roubaix del 2011 (foto LaPresse)


 

Cancellara poteva vincere tutto, “un grande giro anche con una certa facilità”, sentenziò Miguel Indurain. Ma avrebbe rischiato di non vincere più lì dove vincere gli dava più soddisfazione, nell’inferno di pietre del Nord. E allora preferì non cambiare quando nel 2010 gli prospettarono la possibilità di cannibalizzare tutto. Non era Merckx. Era Spartacus. Uno che lottava da solo contro tutti. Uno che al gruppo preferiva la solitudine della cronometro e delle pietre. E’ Spartacus, l’ultimo romantico di un ciclismo che romantico lo è sempre meno. Fiandre e Roubaix a parte.