Sacchi: “Spero che Silvio voti Sì”
Invasione di campo dell’allenatore più vincente della storia del Milan, che vota Cav. da quando il Cav. c’è. E che vorrebbe il Presidente dalla sua parte al referendum. Chiacchierata (milanista) con il profeta Arrigo.
Ho esitato prima di fargli la domanda, mi sembrava di fare invasione di campo e temevo di ottenere risposte evasive o scontate. Invece: “Sì, al referendum voterò Sì. E spero che anche Silvio voti Sì”. Arrigo Sacchi non ha mai avuto tessere di partito, non ha mai aderito a nulla, se non alle sue ossessioni. Vota per Silvio da quando Silvio c’è, con lui ha un rapporto profondo, di affetto e devozione, dargli del tu è stata una conquista recente, “lo ha voluto lui, io niente, non ce la facevo proprio, allora mi dice, ti do io un consiglio, mettiti davanti allo specchio e ripeti decine di volte ‘Silvio sei uno stronzo, un grandissimo stronzo’ e vedrai che alla fine ce la farai”.
Eppure questa volta si smarca dall’uomo di cui dice che sa vedere più lontano e prima di tutti gli altri, questa volta strappa, con immutato affetto e l’augurio di ritrovarsi dalla stessa parte, ma strappa. Spiega le ragioni della sua scelta e sembra di sentire un Renzi più ispirato e più sincero: dice che è tempo di cambiare, alla velocità a cui ormai vanno le cose i settant’anni della Costituzione rappresentano un’èra geologica, non bisogna avere paura della perfezione tanto come diceva Dalì non la raggiungiamo mai, dobbiamo essere ottimisti, il pessimismo paralizza e disgrega, dice che viene dall’industria, dalla piccola impresa, la sua famiglia aveva un fabbrica di scarpe con cento dipendenti, il 90 per cento della produzione andava all’estero, dunque ha visto quanto è difficile produrre ricchezza, quanta fatica costa rimanere a galla: chi vota No è della stessa schiatta di chi ha triplicato il debito pubblico.
Se esiste davvero una sorta di filiazione tra Berlusconi e Renzi, allora Sacchi è il cordone ombelicale, la prova che hanno un po’ di Dna in comune, la stessa ambizione di fare e fare bene, la stessa attenzione maniacale al dettaglio, puntare sempre e comunque all’eccellenza, anche a costo di andare controcorrente, di urticare gli italiani che siccome hanno senso della nazione ma non dello stato non sopportano coloro che vogliono emergere nella cosa pubblica a forzare la linea dell’orizzonte: è quello che disse a Berlusconi appena sceso in campo e a Renzi quando ancora si preparava a prendere il potere, ai margini di una sgambata della Fiorentina.
Sacchi in tutta la sua vita ha provato a cambiare la testa e il cuore delle folle, educarle a vedere nel modo giusto e con le buone maniere il calcio, “la più importante fra le cose meno importanti”. Ha predicato una rivoluzione culturale in cui la società conta più della squadra, la squadra più dei singoli, la testa più dei piedi, “di uno che sragiona si dice che ragiona con i piedi”, non si può dunque contare sui piedi per creare il gioco, per far uscire una leadership del collettivo che tuteli la bellezza, l’armonia, il talento, ci vogliono intelligenza, carattere, disponibilità al sacrificio, generosità verso i compagni e il campione deve essere ancora più generoso degli altri, soccorrere aiutare, farsi in quattro.
Berlusconi si era incapricciato dell’argentino Claudio Borghi, una mezzapunta: Sacchi non ne voleva sapere perché era un pessimo professionista, “un isolato”. Scommise con il presidente, in caso di conquista dello Scudetto avrebbe dovuto rinunciare all’acquisto: il Milan vinse il primo Scudetto dell’èra berlusconiana.
C’è in Sacchi la soddisfazione di aver fatto tutta la trafila, dal basso, proprio come il miliardario che comincia dal primo lotto di terreno o il politico che contro ogni pronostico conquista la presidenza della provincia: cominciò in seconda categoria, poi la prima, poi la quarta serie, passaggio a Coverciano per l’immancabile patentino, poi la primavera del Cesena, poi il Rimini, le giovanili della Fiorentina, ancora il Rimini, il Parma in serie C.
L’apprendistato del calcio dilettantistico stimola la passione, forgia il carattere, insegna che la strada è lunga e l’ambiente spesso ostile, “al Rimini chiesi ai giornalisti locali di scrivere il loro pronostico per la stagione, tutti scrissero che saremmo retrocessi, ma io mi dicevo, ma che progetto può mai essere la salvezza?”. Proprio come il miliardario che mira sempre più in alto e il politico che non ci sta a vivacchiare, a galleggiare. “Restammo in testa non ricordo più se venticinque o ventisei giornate alla fine arrivammo quarti e loro a dire beh questo Sacchi è bravo ma non vince”.
E’ questa la radice della incultura sportiva e non solo sportiva degli italiani: non si attengono ai fatti, rifiutano di guardare i dettagli, misurano ogni cosa con il metro della vittoria. Ma i soldi e il successo non possono essere obiettivi in sé, sono solo la conseguenza ultima e spesso casuale del lavoro accanito e della passione che brucia. Questo e solo questo fa di un vincitore un vincitore degno.
“Alla proprietà del Cesena dissi datemi quello che volete, al primo anno in rosso-nero guadagnai meno di quanto prendevo al Parma”. Certo poi i soldi se li è fatti dare e anche tanti, lo si voglia o no in una società di mercato, la remunerazione è la prima definizione del valore, del talento di un individuo. Ma se Arrigo Sacchi ha diviso il calcio in un prima e in un dopo di lui, se è riuscito nell’impresa di costruire la più grande squadra di club di tutti i tempi, se ancora oggi ispira grandi allenatori come Pep Guardiola o Jürgen Klopp o Arsène Wenger, se ancora oggi è guardato dal popolo rossonero con immutato affetto, è per la sua ricerca folle, ossessiva, di qualcosa che si era fin lì solo intravisto, ma solo a sprazzi, in qualche club e in qualche allenatore.
Aveva otto anni, era al mare con la famiglia in uno stabilimento della Romagna, in televisione c’erano le prime trasmissioni sperimentali, i Mondiali di calcio del 1954 in Svizzera, lui per vedere meglio si inerpicò su un tavolino e rimase folgorato dall’Ungheria di Puskas, forse nemmeno si accorse della Germania e sicuramente pianse la sera del miracolo di Berna quando la Germania rimontò lo svantaggio di due gol e vinse contro l’Ungheria, qualche anno dopo si invaghì del Real Madrid, quello leggendario di Di Stefano, Gento e Puskas, insomma fu assai precoce e immediato il suo amore per le squadre che impongono il gioco, che tengono palla. Una volta il padre gli regalò un pallone perché era stato bravo a scuola, uno di quei palloni pesanti con cuciture e lacci che quando si bagnavano sembravano di marmo, una squadra di ragazzini più grandi andò al campetto dove giocava con i suoi compagni, fecero una partita: “Giuro che correre dietro agli avversari senza mai toccare palla è frustrante e per nulla divertente. Mi ripresi la palla e me ne tornai a casa. Ma quella volta l’ho potuto fare. In fondo ero il solo e legittimo proprietario”.
Quando arriva al Milan, nel 1987, tutti si chiedono chi sia. Berlusconi lo presenta così: ho trovato il tecnico “con la paranoia della vittoria”. Gli inizi sono un disastro, i giocatori non sono prevenuti ma molto diffidenti, in fondo si ritrovano a dovere obbedire a qualcuno che ha poco più di quarant’anni e un passato da calciatore più che mediocre e hai voglia a dire che un buon fantino non ha mai dovuto fare il cavallo: persero molte partite di fila, questo qui non mangia la favetta, non arriva ai morti, scrivevano i giornali. “Arrigo hai bisogno? Sì presidente. Venne negli spogliatoi, di solito si allungava nei discorsi, ma quella volta fu grandissimo stringato efficace: questo è l’allenatore che ho scelto, rimarrà qui molto tempo, chi lo accetta rimane, gli altri se ne possono andare. Da allora cominciammo a volare. Un altro presidente così non esiste, non ho mai sentito qualcuno dire che dovevamo vincere, convincere e divertire: essere appunto vincitori degni”.
La prima partita di Coppa Campioni il Milan la giocò in Bulgaria: Berlusconi e Galliani vanno a trovare la squadra di pomeriggio, si giocava la sera, e trovano Sacchi a letto, sfinito da una notte insonne popolata da dubbi e fantasmi, “qui abbiamo il principe di Condé” disse il presidente. E il principe vinse la prima.
La consacrazione avvenne nelle due semifinali con il Real Madrid: per i rossoneri non era più uno spauracchio, l’avevano sconfitto l’estate precedente addirittura per 3 a 0 nel trofeo Bernabeu, segnò anche un esordiente, Graziano Mannari, che Sacchi fece entrare al posto di Massaro reo di fare un riscaldamento svogliato. Ma la Coppa Campioni è sempre un’altra musica.
Tutti si aspettavano il solito catenaccio, il gioco all’italiana disprezzato all’estero, tutti in difesa, in attesa che un contropiede di rapina partorisca il gollaccio della vittoria. Invece sotto gli occhi stupefatti di mezza Europa, il Madrid fu asfissiato dal pressing, dal movimento collettivo dei rossoneri: passò la sua metà campo pochissime volte solo che in una di queste andò in vantaggio. Per pareggiare ci volle un colpo di nuca di Van Basten, un tuffo con mezzo avvitamento un metro abbondante al di là del vertice dell’area di rigore, un gesto tecnico mai visto. Il Milan uscì tra gli applausi e anni dopo Butragueno, il bomber del Real, confessò a Sacchi di non avere mai visto nessuno andare a Madrid e fare quel tipo di gioco.
Il ritorno è la partita che Sacchi ha temuto di più: quando all’andata giochi bene e non vinci e magari rischi addirittura di perdere, nove volte su dieci il ritorno va male. E poi fa pure, dice lui, un “errore da matita rossa”: Evani, esterno di sinistra, mancino e rapido, si infortuna in allenamento e non sa con chi sostituirlo. “Io non sono un tattico, credo solo nella strategia, nel gioco e feci la scelta più insensata, ci misi Carlo Ancelotti che era lento, destro e non aveva mai giocato in quella posizione, gli dissi: non ti preoccupare sei intelligente te la caverai. Se stiamo in trenta metri nessuno ci può battere”. Berlusconi andò a far visita negli spogliatoi, da quello della squadra ospite provenivano urla di incitamento alla vittoria: “Ma Arrigo noi non urliamo? Non si preoccupi presidente, urlano dalla paura”.
Ad aprire le danze è proprio il Carlo, destro e lento ma intelligente, che appena vede un varco, da sinistra si sposta verso il centro e da trenta metri lascia partire una castagna dritta nel sette. Van Basten non comincia bene, ogni tanto cade in letargo, è meteoropatico ma appena vede che in panchina si stanno scaldando per sostituirlo, si risveglia e fa due gol”. Cinque a zero e Real a casa.
Per la finale contro la Steaua, Sacchi sfrutta abilmente il pensiero di Gianni Brera, inarrivabile sostenitore del calcio all’italiana. “Dico ai miei giocatori, domani incontriamo i maestri del possesso palla e del calcio ballato, che facciamo li aspettiamo in area e poi ripartiamo?”. Rispose per tutti Gullit, pilastro dello spogliatoio, tanta personalità da dire a Berlusconi che non sarebbe andato in ritiro per un mese perché con le palle piene avrebbe corso male: “No mister, li aggrediamo ovunque fin dal primo minuto e fino allo sfinimento”. Quattro a zero e primo titolo continentale.
Quando il Milan vince anche la sfida intercontinentale, uno fra Baresi e Ancelotti, non ricorda più chi, lo guarda stupito e gli dice ma siamo i più forti del mondo e lui guarda l’orologio: fino a mezzanotte sì.
La rivista World Soccer il Milan degli Immortali lo ha messo al quarto posto della classifica delle migliori squadre di tutti i tempi, ai primi tre ci sono solo nazionali, Brasile, Olanda, Ungheria, dunque è di fatto la migliore squadra di club di sempre. La stagione successiva, gli abbonamenti salirono a sessantamila: fu l’inizio dell’età dell’oro.
Non mollare mai, non rilassarsi mai, non rallentare la tensione: la motivazione è la benzina, se non c’è neanche il motore di una Ferrari può nulla. Secondo Sacchi Maradona è stato l’unico che poteva fare a meno di allenarsi, il calciatore con più qualità è stato Ronaldo, Van Basten aveva classe pura, cristallina ma non voleva faticare né lavorare. “Cercavo di convincerlo, quando mai si è visto che si ottiene qualcosa senza fatica, ma lui niente”.
Per i suoi princìpi di gioco, Sacchi ha osservato altri sport, dal rugby ha preso un po’ del senso del movimento collettivo, al basket si è ispirato per il pressing, ha provato anche con l’hockey ma da qui non ci ha tirato fuori niente. Ha studiato la storia, l’unica materia che a scuola lo appassionava, le falangi romane che avanzavano a testuggine e grazie all’organizzazione reggevano con pochi uomini l’urto di eserciti molto più numerosi.
Da qui l’idea di scomporre il calcio in movimenti studiati in settimana e applicati in modo ferreo, il gioco come spartito suonato da un ensemble, da un’orchestra che mette armonia e bellezza alla portata di chiunque, anche di piccole squadre che reggono il campo e tengono palla di fronte allo strapotere teorico di club con fatturati dieci volte maggiori.
Solo che l’orchestra deve suonare come un solo uomo, non sono ammesse stecche ed errori: alla prima sciatteria l’intera impalcatura fatta di idee fervore e furore scricchiola. Un giorno, era appena tornato alla guida del Parma, perde una partita per via di una papera di Buffon, che va da lui a scusarsi, gli dice che l’errore tecnico ci sta sempre, che si riprenderà subito, la volta dopo giocano in trasferta il Parma vince due a zero, Buffon si esalta e para pure un rigore, ma Sacchi, l’uomo che al calcio avrebbe dato la vita si accorge di non provare più nulla, nessuna gioia interiore: il fuoco della sua doppia ossessione, il calcio e il perfezionismo, si è spento di colpo. “Quando mi sono reso conto che non avrei più dato la vita per il calcio, ho capito che non potevo più chiedere nulla perché non potevo più dare nulla”.
E dopo appena un mese dall’incarico si dimette: Tanzi, il patron del club, non vuole credere che qualcuno con uno stipendio così alto vada via di sua iniziativa. Già anche questo è Arrigo Sacchi, il profeta.