Se in Russia c'è stato doping di stato, dov'era l'Agenzia antidoping?
Oltre mille atleti russi sarebbero stati trovati positivi a una rianalisi delle provette. La Wada parla di "cospirazione istituzionalizzata e disciplinata che puntava a vincere le medaglie". Alcune domande
Lo sport russo andava a benzina. Oltre mille atleti di specialità olimpiche estive, invernali e paralimpiche sarebbero infatti risultati positivi a un’analisi più approfondita dei campioni di sangue e urine. Questo almeno emerge dalla relazione della Wada. L’avvocato canadese Richard McLaren nel corso della conferenza stampa di presentazione del report ha annunciato che l’agenzia mondiale antidoping è “ora in grado di confermare un sistema di coperture che risale almeno al 2011 e che è proseguito anche dopo i Giochi olimpici di Sochi”. Insomma a Mosca sarebbe stato attivo "un sistema di coperture che si è evoluto da un caos incontrollato fino ad una vera cospirazione istituzionalizzata e disciplinata che puntava a vincere le medaglie”.
Provette “inquinate”, campioni di urina scambiati, test alterati, il tutto con il beneplacito delle istituzioni sportive russe. Perché se alterazione c’è stata – il rapporto parla di microtracce di sale da cucina e caffè per non rendere tracciabili le sostanze dopanti, tracce di dna maschile nelle urine della nazionale femminile di hockey –, questa era impossibile da praticare caso per caso, serviva un sistema complesso che manipolasse e rendesse omogenei i risultati di tutti gli oltre mille atleti dopati. Serviva un sistema che proteggesse gli sportivi finalizzato a provvedere “all’insabbiamento a tutti i livelli istituzionali, dal ministero ai servizi segreti, per favorire il conseguimento dei migliori risultati”. Doping di stato. Accusa mossa dalla Iaaf e dalla Wada già prima delle ultime Olimpiadi estive a Rio, accuse che avevano decimato, tra squalifiche e presenze non gradite, la delegazione russa in Brasile, ma che erano state congelate sino a data da destinarsi, ossia sino a oggi, perché il tema era delicato e “un processo sommario non poteva essere ancora fatto”, disse il presidente del Cio a microfoni spenti alla Bbc.
Il presidente del Cio, Thomas Bach, ha assicurato che l’inchiesta della Wada sarà passato al vaglio del Comitato olimpico e da due commissioni che verranno istituite ad hoc e solo dopo ciò verranno comminate le pene. “Andremo – ha detto – persino oltre alle indagini di McLaren. Lui ci ha chiesto di testare altre 100 provette di Sochi, rispetto a quelle che aveva già analizzato in passato. Ma non ci accontentiamo, testeremo nuovamente tutti gli atleti russi che hanno partecipato a quell’Olimpiade. Se verrà provata la strategia della truffa, io personalmente sono per la squalifica a vita di atleti e dirigenti di qualsiasi livello”.
Posizione, quella di Bach, assolutamente legittima, sicuramente condivisibile, ma che non tiene conto di due questioni, di due domande che delle quali non si può non tenere conto. Dov’era la Wada mentre tutto questo accadeva, mentre uno stato imponeva alle federazioni di coprire i propri atleti? E ancora: in che modo la Wada controlla gli sportivi se basta un po’ di sale e un po’ di caffè a coprire tracce di sostanze proibite?
La World AntiDoping Agency in questi anni si è resa protagonista di epifanie tardive, di scoperte postume, ha insomma reso evidente come la lotta al doping, la missione che persegue dalla sua fondazione nel 1999, sia un percorso di revisione successiva, in continuo ritardo rispetto alle pratiche effettuate dagli atleti e da chi li gestisce. Si è soprattutto resa protagonista dell’incapacità di regolamentare la lotta al doping in modo centralizzato. Differenze di trattamento da sport a sport – prendete la gestione dei controlli tra diverse discipline –, confusione nel listone di sostanze proibite che ormai contiene farmaci non più in uso, superati dal progresso sia sportivo che scientifico, e, soprattutto, una gestione lacunosa dei vari laboratori nazionali. L’esempio di quello di Mosca parla molto di più delle magagne della Wada che di tutte quelle che la Wada stessa ha contribuito a scoprire.