Chris Froome durante l’ultima edizione del Tour de France. A Parigi arriverà in maglia gialla: è il suo terzo successo nella Grande Boucle in carriera (foto LaPresse)

Froome e Mr. Hyde

Giovanni Battistuzzi

Chi è Tim Kerrison, il preparatore guru che ha reso il ciclista britannico un campione. Quel filo che passa da Girardengo e Moser

Ci sono predestinati e predestinabili. Questione di classe, dicono, quadricipiti e polpacci, polmoni soprattutto. Ma non basta. La bicicletta impone altro. In mezzo c’è lavoro, molto, sacrifici, tanti, e chilometri da percorrere. E incontri. Quelli che possono far evolvere un talento in un campione. Perché se in corsa si pedala da soli, alla corsa ci si deve arrivare e arrivarci al massimo, e per farlo non bastano più solo chilometri nelle gambe, serve metodo e pianificazione. Così per tutti. Così per chiunque sia arrivato da sessant’anni a questa parte nell’élite del ciclismo. Per tutti salvo Marco Pantani, ma lui predestinato lo era per davvero e anarchico per disposizione. Il Pirata fu eccezione in uno sport che ha bisogno di guide: nessun preparatore, nessun medico personale, né cardiofrequenzimetro né tabelle di allenamento, solo la sensazione della gamba, solo il Monte Carpegna – cima dell’appennino marchigiano al confine con Romagna e Toscana – per capire quanto poteva realmente andare forte. Per il resto del gruppo invece programmi e preparatori sono la norma: dai gregari ai capitani. Ci sono i predestinati, a cui basta una guida e predestinabili a cui serve la guida. E qui sta l’imprevedibilità dell’incontro. Come quello che ha trasformato un ragazzo smilzo e timido in un terminator da corse a tappe. Perché l’etichetta di predestinato non era attaccata sul cartellino di Chris Froome. A inizio carriera sul suo conto c’erano solo buone speranze, nessuna certezza e soprattutto nessuna ambizione di vederlo trionfare tre volte al Tour de France, la Scala del grande ciclismo, per molti, in sintesi, l’Appuntamento.

Ci sono incontri che modificano carriere, che uniscono talento e programmazione, sport e scienza e indirizzano il potenziale, lo esaltano, lo sublimano.

Come quello che vede protagonista Costante Girardengo quasi un secolo fa. 

Dicembre 1918, Novi Ligure, Piemonte. Girardengo è professionista da quattro anni e ha già vinto una Milano-Sanremo e due Milano-Torino. Di lui Armando Cougnet, l’ideatore del Giro d’Italia scrive che può “diventare il migliore, ma…”, “che per potenzialità è il migliore che il patrio ciclismo abbia rivelato, ma…”. Ma in una gara di un giorno, perché “le competizioni di fondo appaiono scoglio proibitivo per il probo giovane pedalatore”, scrive l’allora direttore della Gazzetta, Vittorio Varale. La svolta ha un nome e cognome: Biagio Cavanna. Cavanna ha la stessa età di Girardengo, corre in bicicletta e qualche volta l’ha pure battuto. Girardengo ha la classe, Cavanna il dono di capire i suoi limiti e quello di “sentire” i muscoli, di conoscerli e saperli trattare. E un solo comandamento: “Il sacrificio è l’unica moneta che paga in gloria”. Ha imparato l’arte di manipolare la muscolatura, poi ci ha messo del suo: trasforma le cosce e i polpacci di Girardengo, lo convince di essere il più forte, gli impone un programma di allenamento. “La pianificazione è tutto, non basta pedalare, bisogna sapere quanto e come farlo, con che sforzo”, dirà nel 1959 a Bruno Raschi. E Costante inizia a dominare. Nel ’18 fa sue le corse di un giorno più importanti. Poi al Giro d’Italia detta legge: sette tappe e successo finale. In pochi anni diventa il primo Campionissimo del ciclismo italiano. Cavanna invece il maestro, poi il mago, infine, dopo aver perso la vista nel 1935, l’orbo veggente. Leggenda vuole che tastando i muscoli riuscisse a capire quanto forte sarebbe andato un corridore. Cronaca narra che una volta sentiti quelli di Fausto Coppi esclamò: “Abbiamo un nuovo Campionissimo”. Fu lui a guidare l’Airone per tutta la carriera, fu anche grazie a lui che divenne il più forte della sua epoca.

Se l’introduzione delle tabelle di allenamento fatta da Cavanna è una rivoluzione dettata dal buon senso e dalla psicologia (“convinci qualcuno che può andare più forte e quello ci andrà”), quella di Enrico Arcelli – e di tutto il Team Enervit da lui diretto – sessant’anni dopo fu un cambiamento scientifico-tecnologico. Se il primo lavora sull’uomo, il secondo sui numeri: analizza, isola variabili, mette in pratica, è ingegneria fisica applicata all’uomo. Nello specifico a Francesco Moser. L’obiettivo è il record dell’Ora, superare i 49,431 chilometri di Eddy Merckx, una prestazione ai limiti dell’umano secondo la quasi totalità degli addetti ai lavori. Non per Arcelli però. Che segue il suo credo: “Il corpo umano è un motore che deve essere preparato a lavorare ad alti regimi e ad alta efficienza”, dirà nel 1990 in un’intervista ad Adriano De Zan. E così l’attenzione si sposta sui battiti cardiaci e sulla soglia anaerobica, ossia il livello massimo di sforzo prima che l’organismo inizi ad accumulare acido lattico e ioni idrogeno nel sangue e nei muscoli. L’allenamento diventa scienza esatta, le uscite diventano sessioni: ore sotto soglia, poi impennate al di sopra. Allenare il cuore per allenare il cervello a comandare il fisico. Non solo. Arcelli inizia a concentrarsi sull’aerodinamicità. Porta il trentino in galleria del vento, ne cura la posizione in sella, spinge il biomeccanico Antonio Del Monte a realizzare la sua idea, la ruota lenticolare, due dischi biconvessi saldati tra loro a sostenere lo pneumatico: un’invenzione che segnerà un’epoca. Il team Enervit massimizza la già incredibile efficienza fisica di Moser. Che il 19 gennaio 1984 sull’ovale di Città del Messico vola a 50,808 di media oraria, per migliorarsi poi quattro giorni dopo, il 23 gennaio: 51,151 km/h, per molti fantascienza. Un lavoro che darà frutti per tutto l’anno: a marzo vince la Milano-Sanremo, ad aprile due tappe della Vuelta di Spagna, a maggio quattro frazioni e all’Arena di Verona la classifica generale del Giro d’Italia, il suo unico Giro d’Italia.

Nel 1984, mentre il campione trentino diventava l’uomo più veloce al mondo, Tim Kerrison era ancora un ragazzino. Tim viene da Brisbane, Australia, è più appassionato di sport che di studi, ma a quelli si dedicherà qualche anno dopo, quando capirà che diventare un grande atleta sarebbe stato impossibile: si laurea in Scienze dello sport e management, poi si iscrive a medicina, prima di entrare nella federazione di nuoto australiana. Nel 2000 gli viene affidata la preparazione della squadra giovanile. Lì trova Jodie Henry e da lì parte il loro percorso che porterà tre medaglie d’oro al collo all’atleta alle Olimpiadi di Atene 2004.

L’australiano ha rivoluzionato la metodologia d’allenamento e il modo di pedalare di Chris, reinventandolo come corridore

Lascia l’Australia l’anno dopo per il posto di preparatore nella nazionale di nuoto inglese che a Pechino 2008 conquisterà 6 medaglie (di cui due d’oro), il triplo di quanto raccolto in Grecia quattro anni prima, il miglior risultato di sempre. E in Cina incontra David Brailsford, il tecnico del ciclismo britannico. E’ lì che il manager gli chiede di entrare nello staff della squadra che sta creando con la Federazione per trasformare il Regno Unito nell’avanguardia del ciclismo: la Sky.

Kerrison aiuta Brailsford nell’individuare i corridori da ingaggiare ed è lì che incontra sulla sua strada Bradley Wiggins e Chris Froome. E da lì la Union Jack inizierà a sventolare sui podi delle grandi gare del ciclismo. Tim Kerrison non è stato un ciclista, non è stato formato nel ciclismo, non viene insomma né da Cavanna, né da Arcelli: viene dai Big Data. Per lui a contare sono soprattutto i parametri fisici. Misura, classifica, incamera, calcola frequenza cardiaca, soglia aerobica e anaerobica, consumo di ossigeno, potenza, capacità del corpo di resistere allo sforzo. E li analizza, li mette in correlazione, determina quali siano i limiti strutturali di ogni atleta. Infine crea il percorso migliore per arrivarci. Che si sintetizza in un mantra: “Ogni corridore è un rapporto tra peso e potenza. Il peso minimo per sprigionare la potenza massima. Poi c’è il lavoro quotidiano”, dice alla Bbc. E’ calcolo computazionale applicato all’uomo. Ed è metamorfosi.


Bradley Wiggins e Chris Froome sul podio del Tour de France del 2012 (foto LaPresse)


Quando nel 2010 Bradley Wiggins passa alla Sky è già Sir ed è già il più grande ciclista su pista della storia britannica. L’anno precedente aveva chiuso in quarta posizione il Tour de France, grazie anche a un percorso non troppo duro. Un risultato eccellente, ma che in pochissimi avrebbero pensato potesse essere migliorato. Tra questi c’era Kerrison. I dati fisici dell’atleta londinese dicevano che avrebbe potuto lottare con i più forti corridori. E batterli. Ma doveva mutare completamente il modo di andare in bici. L’australiano rivoluzionò il suo modo di allenarsi, di stare in sella, di pedalare, anche di respirare. Corresse il modo che aveva di portare le spalle e di muovere il bacino sulla bicicletta, poi gli inculcò il suo mantra: “Agilità, leggerezza, controllo”. Rapporti leggeri e molte pedalate al minuto. Wiggins divenne il primo inglese a vincere la Grande Boucle.

Poi arrivò Froome.

Se Girardengo e Moser erano due vincenti diventati leggende, se Wiggins era il re delle piste che conquistò la strada, Chris Froome era poco più di uno sconosciuto. Un secondo posto in una tappa del Giro d’Italia del 2009 e nient’altro. Uno che dicevano “ha buone potenzialità, ma deve imparare a gestirsi e migliorare la capacità di recuperare”, almeno per il manager della sua formazione d’allora, Claudio Corti (alla Gazzetta). I dati di Kerrison però dicono altro. Parlano di un corridore superiore alla media per potenzialità e resa in salita.

Il preparatore australiano applica al britannico nato in Kenya gli stessi metodi di allenamento del baronetto. Ma li estremizza. Froome ha cinque anni in meno di Wiggins – 25 contro 30 nel 2010 – e una attitudine migliore a modificare in fretta le proprie abitudini. Gli fa progressivamente alleggerire i rapporti con i quali spinge la bici, lo persuade ad alzare la cadenza di pedalate, lo abitua ad avere un controllo totale dei suoi dati fisici in corsa. E nascono le cosiddette frullate, le accelerazioni di Froome, un ossessivo e lestissimo muovere i pedali quando la strada sale, un’impennata della velocità a testa bassa, occhi sul cardiofrequenzimetro e conteggio dei secondi nei quali il cuore supera la soglia anaerobica. Una volta raggiunto il limite massimo, la ricerca di una veloce diminuzione del ritmo cardiaco. E se serve, se i rivali non sono stati ancora staccati, la riproposizione del tutto.

In questo modo Froome ha conquistato tre Tour de France. In questo modo Kerrison ha creato qualcosa che non si era mai visto nel ciclismo: un frullare sulle pedivelle a un ritmo quasi inumano. E’ l’estremizzazione del metodo Lance Armstrong, ossia la ricerca dell’agilità invece che della potenza, la salvaguardia dell’elasticità a discapito della forza bruta. Ed è allo stesso tempo di più. Perché l’australiano ribalta tutte le convinzioni sino a ora prese per buone in termini di gestione dei flussi di intensità dell’allenamento. L’inverno non è attesa, sgambate e lavoro preliminare. “L’intensità di prestazione va mantenuta tutto l’anno, specialmente durante i periodi lontani dalle corse”, ha detto a Jeremy Wilson del Telegraph. Ed è per questo che chi sta alla Sky non può permettersi distrazioni e pause. La vita d’atleta non prevede ferie, è un vortice totalizzante.

I numeri dell’australiano sono dogmi, non si mettono in discussione, le sue indicazioni sono regole che tutti devono mettere in pratica. Chi le accetta vince, chi non lo fa è fuori. E la porta viene sbattuta sul muso a chiunque, campione o gregario che sia. E’ successo anche a Mark Cavendish, campione mondiale nel 2011, lo sprinter più vincente della storia recente.

Nato nel nuoto è riuscito a cambiare il ciclismo: calcolo computazionale applicato ai corridori il suo metodo

Kerrison è un decisionista, ma non un tiranno. Perché il teorema dei dati che estrapola prevede un corollario e questo riguarda il singolo corridore, fisico e personalità. Sempre a Wilson ha detto: “Gli atleti non sono dei meri esecutori. Ognuno ha la propria personalità e ognuno ha un modo di rapportarsi con la fatica diverso. Il punto è sublimare questo rapporto: non deve essere un’inevitabilità, ma una necessità”.

“Tim ci ha sempre parlato, ci spiegava il perché di quello che facevamo, ci illustrava i benefici e le prospettive”, racconta al Foglio un ex corridore del Team Sky. “Il suo è stato un approccio da maestro ad alunno: non ti diceva ‘devi fare questo’, ti diceva ‘facendo così, puoi migliorare questo’ e ti illustrava tutto. Era un corso di scienza e di autostima. Perché mentre ci diceva questo e quello ti spingeva, dati alla mano, a dare il tuo meglio”.

 

 


 

Per approfondire l'argomento ecco alcuni libri che possono fare al caso vostro

Girardengo

Ho osato vincere

The Climb. L'autobiografia di Chris Froome

Inside Team Sky