Di rabbia e racchette. La Coppa Davis 40 anni dopo secondo Tonino Zugarelli
L'ex tennista azzurro racconta il successo cileno con Panatta, Barazzutti e Bertolucci e l'indifferenza degli italiani per una vittoria straordinaria che si ricorda oggi
“Ci ho messo una vita a fare pace con questo sport e forse non ci sono ancora riuscito”. Tonino Zugarelli compirà sessantasette anni tra un mese e nonostante le sue ginocchia invochino protesi e un po’ di riposo continua a scendere in campo ogni giorno. “Le gambe se ne sono andate, il braccio è ancora quello di prima”. C’era anche lui a Santiago del Cile nel 1976 quando gli azzurri vinsero la prima e unica Coppa Davis della loro storia. Lui, Adriano Panatta, Paolo Bertolucci, Corrado Barazzutti e il capitano Nicola Pietrangeli; erano giovani e bellissimi, la squadra più forte che l’Italia abbia mai avuto. “Abbiamo compiuto un’impresa straordinaria, me ne sono accorto troppo tardi”. Il ricordo di quegli anni lo commuove solo adesso, a quarant’anni di distanza. Prima per lui il tennis è stato un massacro, un tormento. “Dal primo all’ultimo giorno della mia carriera l’ho considerato un lavoro, un modo per arrivare alla fine del mese. Adriano, Paolo, Nicola, per loro era passione, per me sopravvivenza”.
Tonino Zugarelli ha conosciuto il tennis a dieci anni facendo il raccattapalle; i ricchi signori vestiti di bianco che giocavano per non annoiarsi davano un po’ di soldi a chi raccoglieva le palline durante le loro partite. “Dovevamo essere veloci e non disturbare”. Tonino era così bravo che neanche si accorgevano della sua presenza, mai un saluto, mai un ringraziamento. A volte, quando trovava una racchetta rotta provava a palleggiare un po’, per vedere l’effetto che faceva. Le piaceva? “Lo odiavo”. Come tutti i ragazzi di borgata da piccolo pensava solo al calcio. “Era quella la mia vera passione e l’ho tradita”. Il tennis è stato un caso, una tortura, la sua salvezza. “Se non avessi fatto il tennista non lo so dove sarei finito. E’ stato l’unico modo che ho trovato per togliermi di dosso l’umiliazione, la frustrazione della povertà, ma non sono mai riuscito a innamorarmi di questo sport”.
Tonino era forte ma non voleva crederci. A diciassette anni ha giocato il primo torneo, a diciotto era già passato in prima categoria, all’ultimo posto, l’ultimo dei primi. Viene convocato al centro di preparazione olimpica di Formia, dove conosce i suoi futuri compagni di squadra e nel 1971 entra ufficialmente tra i professionisti. Il tennis sta diventando una cosa seria. Lui lo vive a malincuore, con un senso perenne di inadeguatezza e un peso sullo stomaco che non riesce a scrollarsi di dosso. Nelle foto di quegli anni ha i baffi scuri e lo sguardo rivolto chissà dove. “Che cosa ci faccio io qui?” si chiede spesso, poi pensa alla casa in cui ha abitato da bambino, a sua moglie Bruna e ai figli che vorrebbe avere e allora ricomincia a giocare. “Ma da dove ti viene tutta questa rabbia?” gli domandò un giorno Mario Belardinelli, il dirigente del centro di Formia. Lui non sapeva cosa rispondergli, era nato così, sbagliato. E’ convinto che gli anni del successo siano stati un incidente di percorso, una parentesi della vita che gli viene in mente sempre più spesso.
“Nel 1976 eravamo una squadra fortissima. Panatta e Barazzutti erano tra i primi giocatori al mondo, Bertolucci in doppio faceva sognare e poi c’ero io che qualche soddisfazione me la sono tolta”. Lo consideravano la riserva, un mestiere che offenderebbe chiunque, si sentiva titolare. “In Davis sono stato convocato cinquanta volte, avrò giocato sette o otto partite, ma c’ero anche io, quegli anni sono anche i miei”. Non si è mai lamentato delle convocazioni fatte dal capitano; Pietrangeli parlava e lui si accomodava al suo posto senza dire una parola. Certo che gli dispiaceva, e ogni volta provava la stessa familiare sensazione di rifiuto, però aveva imparato a non darlo a vedere. Si sedeva in panchina e applaudiva i giocatori. “E’ quello che fanno i compagni”.
Solo una volta si è arrabbiato; lo ricorda anche nella sua autobiografia. Il riscatto di un ultimo, scritto insieme a Lia Del Fabro. Pietrangeli gli aveva detto di cambiarsi per giocare un incontro a risultato acquisito, una partita che non contava niente. Zugarelli andò verso il suo capitano e gli urlò parole che venivano dal passato: “Non sono uno scarto, non sono uno straccio”. Aveva ragione.
A Londra il 5 agosto 1976 Zugarelli vince un incontro fondamentale per accedere alla semifinale di Davis, contro Roger Taylor sull’erba di Wimbledon. I giornali lo soprannominano “l’ammazzainglesi”, quel giorno anche Pietrangeli è costretto a congratularsi con lui. Poi c’è stata l’Australia di Newcombe e Roche, dove è rimasto in panchina, infine il Cile di Pinochet, dove ha giocato a risultato acquisito. La finale di Santiago fu una partita che cercarono in tutti i modi di boicottare. Con quale coraggio si può giocare a tennis in mezzo al sangue e ai morti ammazzati dal regime? “Fu difficile, avevo due figli piccoli, ricevevamo telefonate piene di minacce. Ci chiamavano fascisti, eravamo solo giovani”.
Gli azzurri al ritorno a Roma dopo la vittoria della Coppa Davis del 1976
Gli azzurri partirono e vinsero di nascosto, al ritorno non c’era nessuno a festeggiarli. Diventarono cavalieri dello sport ma Andreotti preferì non riceverli. “Fu una vittoria straordinaria, accolta nell’indifferenza”. L’anno dopo Zugarelli arrivò in finale agli Internazionali d’Italia contro Vitas Gerulaitis, dove perse al tie break del quarto set. E’ stato l’ultimo italiano ad arrivare in finale a Roma. E’ stato il ventisettesimo giocatore al mondo di uno sport che non gli è mai piaciuto, per il quale non ha mai pianto. Delle sue vittorie non gli rimane niente perché i ladri gli hanno portato via tutti i trofei, “anche la Coppa in miniatura con cui ci hanno premiato e che adesso si gode qualcun altro al posto mio”.
Ha giocato a tennis per rancore, perché era arrabbiato con il mondo, con la sua infanzia e con un senso di povertà da cui non riusciva a liberarsi. Ha giocato a tennis perché cercava una rivincita. Voleva dimenticarsi il posto da cui veniva, le mance che ha intascato per mangiare quando faceva il raccattapalle e l’incordatore. “Nessuno parla mai degli sconfitti. Ci ricordiamo solo i nomi dei vincitori, mai quelli di chi si perde per strada, e io ne ho visti tanti, erano come me”. Sperava di essere ricordato per qualcosa. “In fondo è per questo che ho giocato a tennis tutta la vita, per guadagnarmi il rispetto degli altri”.
Per approfondire la vittoria dell'Italia 40 anni fa ecco alcuni libri che possono fare al caso vostro:
• Coppa Davis 1976. Una storia italiana
• 1976, storia di un trionfo. L'ltalia del tennis, Santiago e la Coppa Davis
Il Foglio sportivo - IL RITRATTO DI BONANZA