Meno 91 al Giro100: le abuffate del Baslòt Rossignoli
L'edizione del 1922 è la seconda vinta da Giovanni Brunero. E' anche la prima che vede il corridore pavese, colui "che non aveva mai chiuso un Giro più magro di come era partito", correre tra gli "Isolati", i diseredati del ciclismo
Nel cantare la storia di Sante Pollastri e Costante Girardengo, Francesco De Gregori che musicò il brano e il fratello Luigi Grechi che lo scrisse sintetizzarono magnificamente cosa spingesse una persona a stare in sella a tubi d’acciaio pesanti come un cancello, percorrendo strade di ghiaia e polvere per centinaia di chilometri: “Una storia d'altri tempi, di prima del motore // quando si correva per rabbia o per amore”. E se “fra rabbia ed amore il distacco già cresce // e chi sarà il campione già si capisce”, si capisce anche che la metrica della canzone ha favorito l’accantonamento della terza via, che qui non fa riferimento a Blair o Clinton, bensì a una pulsione molto più fisica: la fame.
Sono anni quelli dove passione per la bici e rivalsa sociale attraverso la bici sono ottimi viatici per inforcare le due ruote, ma tutti e due si legano alla componente materiale del mangiare. Perché il ciclismo è ancora lo sport più seguito, più amato e riuscire bene in questo permetteva di mettere insieme il pranzo con la cena, potersi garantire un trattamento di favore da osti e contadini, perché “rifiutar cibo a un pedalatore era gesto meschino”, scrive nel 1933 Giovannino Guareschi sul Corriere emiliano.
La fatica è molta, ma è pur sempre meglio del digiuno “della povertà dalla quale su di un velocipide in molti provavano a fuggire”, chiude con fare patetico lo stesso Guareschi. Giovanni Rossignoli dalle ciotole vuote del pavese, i baslòt e Baslòt veniva chiamato dai più, è da tempo in fuga. Ha pedalato che il Novecento è appena iniziato e il Giro e il Tour sono ancora solo un abbozzo, ha proseguito dopo la loro nascita, ha combattuto come bersagliere ciclista, e ha continuato anche al ritorno dal fronte. E se Armando Cougnet scrive di lui “che in macchina è orribile: la sua pedalata senza grazia né ritmo, ha qualche cosa di scimmiesco, ma lo porta a risultati meravigliosi”, è perché Rossignoli vive per la bicicletta, mosso da un amore sincero e da un imperativo: mangiare. “Mei sum famè, diceva a ogni arrivo. Era il suo motto”.
Eugenio Costamagna nel 1913 racconta di una cena a Milano alla fine del Giro nella quale Rossignoli riesce nell’impresa di finire un’intera pentola di spaghetti con il sugo, “una pentola da esercito, dove ci si mangiava in dieci”. Sino al Giro del 1921 sono le squadre del Baslòt a procacciare pranzi e cene, ma nell’edizione del 1922, iscrittosi alla corsa come indipendente, isolato, tra i diseredati della bicicletta che dovevano cercare anche il posto dove dormire la notte, inizia a fare tutto da solo.
Rossignoli è salito sul podio due volte, ha vinto dieci gare e sui giornali c’è finito parecchio. La gente lo riconosce e lo applaude ancora. Lui strizza l’occhio, stringe mani, parla coi tifosi all’arrivo. E con loro mangia. Nel corso della seconda tappa, la Padova-Portorose, arriva due ore dopo i primi perché si ferma a pranzare con un distinto signore triestino che dice di essere suo grande tifoso. Nella quarta tappa, la Bologna-Pescara, fa altrettanto nei pressi di Foligno. Un’indigestione però lo blocca e lo costringe al ritiro. Correrà sino al 1927, a 45 anni. Dirà, a fine carriera, di non “aver mai concluso un Giro con peso minore di quello che avevo alla partenza”. Chapeau.
Vincitore: Giovanni Brunero in 119 ore e 43 minuti;
secondo classificato: Bartolomeo Aymo a 12 minuti e 29 secondi; terzo classificato: Giuseppe Enrici a 1 ora 35 minuti e 33 secondi;
chilometri percorsi: 3.095.