Arrivano gli scrittori. Achille Campanile al Giro d'Italia: meno 81 al Giro100
L'edizione del 1932 venne vinta da Antonio Pesenti. L'umorista romano fu l'inviato alla corsa rosa per la Gazzetta del Popolo. Ne uscì "Battista al Giro d'Italia".
“Quando il mio vecchio servitore Battista è venuto a picchiare alla porta della mia camera d’albergo di Milano e a dirmi: ‘Signore, la bicicletta è pronta’, sono saltato dal letto. Povero Battista! Raro esempio di fedeltà, ha voluto seguirmi, anche lui in bicicletta, in questo Giro d’Italia”.
Achille Campanile è il precursore di una stirpe di viaggiatori della prosa, padre, almeno d’avventura, di Alfonso Gatto, di Dino Buzzati, di Vasco Pratolini e Anna Maria Ortese, osservatori voraci e poco importa se quasi analfabeti di ciclismo, di tecnicismi, di conoscenze meccaniche e storico-ciclistiche. La cronaca è materia per giornalisti. Non di sola cronaca vive però il ciclismo, ma soprattutto di storie, di retroscena, di imprese che risuonano di epica a pedali, di gente assiepata a bordo strada, frementi nell’attesa di vedere i loro miti passare, anche se solo per un attimo.
A seguire i corridori ci finì convinto dall’amico Ermanno Amicucci, direttore della Gazzetta del Popolo. Ci finì suo malgrado, ma iniziò presto ad apprezzare lo scenario, la compagnia, il baccano. Per tre settimane fu il gruppo la sua casa. Pedalò, o così almeno narra, stando bene attento cosa accadeva nella coda, fingendosi corridore e capitano della fantomatica formazione dei “Sempre in coda”, la compagine degli ultimi in classifica, capeggiata da lui e dal suo servitore Battista, uomo dai “bianchi favoriti, dignitosissimo in bicicletta”. Nel suo racconto, un nonsense ciclistico-narrativo lungo 13 tappe e 10 soste, riporta le gesta degli “isolati” (ossia la categoria di allora dei senza squadra, di quei corridori non supportati da una casa di biciclette) che parteciparono al Giro d’Italia vinto da Antonio Pesenti.
Nella sua narrazione umoristica, descritta con finto intento cronachistico, Campanile riportò la vita del ciclista, le problematiche che vivevano gli isolati, le loro peripezie in un’Italia che sognava il progresso, che inseguiva il mito futurista della velocità, ma che si emozionava, più che per le automobili, per le imprese degli assi del pedale. Reale e immaginario si fondono senza soluzione di continuità e ci si ritrova immersi in una divagazione continua, in una descrizione degli eventi che abbraccia l’assurdo, non scordando mai però il nucleo base della passione ciclistica, ovvero l’ammirazione dello sforzo sovrumano che accompagna il pedalare.
“Il Puma di Cercola ha un diavolo per capello; e non ha tutti i torti. Nella sosta a Napoli i cittadini di San Giovanni a Teduccio hanno dato a Improta, il Leopardo indigente, 150 lire, i cittadini di Barra hanno sussidiato Liguori, il Giaguaro del luogo, con 400 lire. Gli abitanti di Cercola, non hanno dato invece nemmeno un soldo a lui che, come è noto, è il Puma di quella frazione di Napoli”.
In Campanile non c’era spazio per i campioni decantati dalla stampa, gli Alfredo Binda (ossia il Signore della Montagna, secondo il soprannome in voga allora), i Learco Guerra (la Locomotiva Umana) o gli Joseph Demuysère (il primo Leone delle Fiandre). Erano i senza fama del ciclismo i suoi eroi, gli Improta, il Leopardo di San Giovanni a Teduccio, i Liguori, il Giaguaro di Barra o i Perna, il Puma di Cercola. E’ l’esaltazione dell’ultimo ben prima dell’introduzione della maglia nera, ben dell’esplodere della retorica del bel perdere.
Dagli scritti di Achille Campanile uscì "Battista al Giro d'Italia".
Vincitore: Antonio Pesenti in 105 ore, 53 minuti e 50 secondi;
secondo classificato: Joseph Demuysère a 11 minuti e 9 secondi; terzo classificato: Remo Bertoni a 12 minuti e 27 secondi;
chilometri percorsi: 3.235.