Il Giro a Singapore, il gregariato finito di Bergamaschi: meno 78 al Giro100
L'edizione del 1935 è stata vinta da uno dei più fidati gregari di Learco Guerra, Vasco Bergamaschi. E' l'ultima corsa e vinta "all'antica"
Con quel naso schiacciato e con quegli occhi piccoli, infossati e vicini, stretti tra zigomi e sopracciglia il soprannome andava da se: Singapore. I tratti vagamente orientali dicevano questo; il passato di garzone per un panettiere di San Giacomo delle Segnate, Mantova, altro: il Fornaio volante. Vasco Bergamaschi sorrideva a entrambi gli appellativi. Faceva sorridere gli altri con battute e giochi di parole quand’era giù dalla bicicletta, ma quando muoveva i pedali i sorrisi altrui si trasformavano in ghigni. Perché Singapore in sella era furia e ardore, uno che quando gli dicevano vai davanti al gruppo, davanti al gruppo ci andava e sulle pedivelle menava forte, colmo com’era di spirito di gratitudine per chi gli aveva cambiato la vita, trasformando la quotidiana sofferenza del pedalare su di un mezzo da venti chili, in una sofferenza più grande, ma sportiva e meglio retribuita: Learco Guerra.
La Locomotiva umana l’aveva visto in bicicletta che era un giovanotto e lo aveva voluto nella sua squadra. Singapore si era subito messo al suo servizio, gli faceva da cameriere in corsa e gli spianava la strada quando era il caso di farlo. Nel 1934 sul Pian delle Cinquemiglia era finito contro un albero per salvare il capitano da una caduta. Finì lì il suo Giro, con una clavicola fratturata e una botta al bacino che quasi non riusciva a stare in piedi. Ma a Milano, il 10 giugno, per festeggiare Guerra in maglia rosa era comunque andato, nonostante la Maino, la sua squadra, gli avesse detto che non gli avrebbe rimborsato il biglietto.
Il 1935 è però un'altra storia. Tutto accadde alla prima tappa. Vasco accelera per lanciare Guerra verso il traguardo di Cremona, ma la Locomotiva si inceppa perde la ruota e fa il buco. Singapore è a tutta, a testa bassa, rosso per lo sforzo che quasi implode. Quando si gira e vede il capitano staccato e il resto del gruppo incerto sul da farsi, decide che per non sbagliare è meglio non attendere. Veste la maglia rosa, ma il volto lo tiene basso, impaurito, si sente un reicida. Servirà un sorriso e una pacca sulla spalla di Learco a convincerlo che niente era successo di sbagliato.
Guerra aveva classe e determinazione, ma anche una gamba che si induriva sempre più quando la strada saliva. Era un campione, ma di quelli che sanno come l’iperconsiderazione di se sia un peccato capitale. Soprattutto perché i premi in denaro li prende la squadra e questi poi li si divide tra tutti e allora è meglio saper lasciare il passo a chi sta meglio piuttosto di fare la fame. E quando sulla Forca Capannelle un giovanotto con il nasone inizia a sgambettare in testa, che nemmeno sanno come si chiama, Bartàli o Bàrtali chissà, Guerra chiama Singapore, gli dice “se ce la fai seguilo”, facendo segno che c’era ancora Giacobbe con lui.
Bergamaschi quel Giro lo vincerà e Guerra ne fu contento. Anni dopo a Vincenzo Torriani dirà: “Il Giro del 1934 è quello che ricorderò per sempre, il più bello, ma quello dell’anno successivo è stato il più soddisfacente. Per Vasco era la grande occasione e io non sarei mai riuscito a vincerlo”.
Vasco fu uno spartiacque. Quell’edizione l’aveva vinta all’antica, su strade che il Giro aveva esplorato per decenni e che per decenni aveva assistito a un gioco di trappole, furbizia e potenza su ogni possibile terreno. Ma quel tempo era finito. Perché la modernità era alle porte e quel Bàrtali o Bartàli o come diamine si chiamava sarebbe stato solo il primo tassello di una rivoluzione copernicana.
Vincitore: Vasco Bergamaschi in 113 ore, 22 minuti e 46 secondi;
secondo classificato: Giuseppe Martano a 3 minuti e 7 secondi; Giuseppe Olmo a 6 minuti e 12 secondi;
chilometri percorsi: 3.577.