Totò al Giro d'Italia di Fiorenzo Magni: meno 70 al Giro100
Dopo le scorribande in bicicletta di Giovanni Gerbi, il Diavolo rosso, il diavolo tornò in corsa nel 1948: a lui l'attore napoletano vendette l'anima per vincere il Giro
Il diavolo il ciclismo lo conobbe presto, che era da poco nato. Diavolo sì, ma Rosso, e umano, anzi umanissimo, un nome e cognome: Giovanni Gerbi. Si narra che ad affibiargli quel soprannome fosse stato un parroco piemontese che nel vederlo evitare a tutta velocità una processione con la sua maglia vermiglia in sella a una bicicletta esclamò: “Quello lì è Diavolo, il Diavolo Rosso”. Gerbi fu pioniere di quello sport, più che un campione una leggenda, sarà che era uno dei primi a essere amato su di un mezzo a pedali, sarà per il carattere esuberante, sarà perché il ciclismo era allora racconto, un romanzo orale di gesta meravigliose e folli in bicicletta.
Il diavolo ritornò che ormai quello Rosso era un signore attempato del quale rimanevano le narrazioni di gesta di un tempo che fu e qualche libro. E questa volta fu cinema, non corsa.
Già nel 1939 già Mario Camerini aveva provato a portare le telecamere al Giro d’Italia per una commedia sentimentale, ma Armando Cougnet si era opposto: “Impossibile. La corsa è cosa seria, mica sollazzo”. Dopo la guerra però l’Italia si era svegliata bisognosa di intrattenimento, di qualcosa per dimenticare quanto successo in quei cinque anni di combattimenti. C’era il Giro ogni maggio a appassionare la penisola e i campioni della bicicletta erano a tal punto celebri che a Reggio Emilia il 26 maggio del 1947 tutta la città si era accalcata per vedere l’arrivo della tappa e sotto il palco del Pci dove parlava Luigi Longo si erano raduti appena una ventina di compagni.
Questo Cougnet lo sapeva, ma lo sapeva anche e meglio di lui Vincenzo Torriani, che lo stesso Cougnet aveva indicato come suo successore e gli avrebbe affidato la guida del Giro nel 1949. Torriani aveva il sogno di rendere la corsa rosa l’evento più importante del calendario ciclistico, l’obiettivo di colmare il divario di fama e prestigio con il Tour de France. Aveva soprattutto idee all’avanguardia dei tempi, il coraggio della sperimentazione, la propensione all’azzardo. Il primo fu quello di aprire al cinema le porte della corsa.
Totò era un professore di liceo quando si innamorò di Doriana (Iva Barzizza). Un sentimento a senso unico, impossibile tanto quanto la speranza di quella promessa: “Noi ci sposeremo quando lei avrà vinto il Giro d’Italia”. Come fare? Come vincere la corsa? Già era missione disperata per tutti quelli che non erano Coppi e Bartali, figuriamoci per un professore di Brescia. L’unica era vendere l’anima al diavolo. Fu così che si presentò Pippo Cosmedin, diavolo veneto di seconda classe, con un contratto che lo avrebbe fatto trionfare nella corsa in cambio della sua anima. Contratto che lo faceva correre più forte di tutti, anche di Coppi e Bartali, di Kubler e Cottur, Schotte e Bobet, Ortelli e Magni.
Quel Giro, sfortuna del diavolo, lo perse all’ultima tappa grazie a un sotterfugio e nonostante la sconfitta Doriana la sposò lo stesso. Fu Fiorenzo Magni a portare la maglia rosa a Milano con Bartali, che aveva salutato la Legnano per una squadra che portava il suo stesso nome, ottavo e convinto che qualcuno l’avesse avvelenato e Coppi già a casa per protestare contro la decisione della giuria di non penalizzare Magni per le spinte ricevute sul Pordoi.
Vincitore: Fiorenzo Magni in 124 ore, 51 minuti e 52 secondi;
secondo classificato: Ezio Cecchi a 11 secondi; terzo classificato; Giordano Cottur a 2 minuti e 35 secondi;
chilometri percorsi: 4.174.
Il Foglio sportivo - In corpore sano