Il Gigante e l'Airone. Lo Stelvio di Coppi e del grande inganno: meno 65 al Giro100
Il Giro d'Italia del 1953 era il primo nel quale veniva percorso il grande passo alpino. Poteva essere la "montagna di troppo", dopo il patto di non belligeranza con Koblet, divenne l'ultima impresa rosa del Campionissimo
Un serpentone di asfalto, ora, di ghiaia un tempo. Un disegno grigio che si innalza, curva dopo curva, tornante dopo tornante, quarantotto in totale se si dà le spalle all’Alto Adige, trentasei se dietro si ha la Lombardia. Duemilasettecentocinquasette metri da raggiungere prima di planare su altre curve, tortuose e sinuose allo stesso modo. Non solo maestoso, imperiale. Carlo Donegani ci mise tre anni per disegnarne e crearne il percorso, le anse, le pieghe, per creare il Passo dello Stelvio. Era stufo del lavoro d’ufficio, ma il coraggio di fare l’esploratore non lo aveva mai avuto, così si decise di disegnare i monti, di vagare lontano dalle città, dal ricordo di quell’amore che l’aveva abbandonato. Lì doveva passare la via più breve per Milano, proprio là, in quell’avvallamento tra l’Ortles e il Cotschen. Perché proprio quel posto, che era zona di aquile, doveva diventare zona di transito. Così almeno voleva l’imperatore Francesco I d’Austria.
Su quei ventisei chilometri che separano Prato allo Stelvio dal Passo Vincenzo Torriani decise di farci arrampicare il Giro d’Italia del 1953. E quando lo disse a febbraio ai corridori più di uno credette che quello fosse uno scherzo. Quando se lo ritrovarono davanti il primo giugno più di uno usò improperi nei suoi confronti.
Bolzano era partenza, Bormio arrivo, in mezzo quella sofferenza inutile, perché tanto era tutto già deciso. Fausto Coppi aveva già dato la mano a Hugo Koblet in segno di resa.
Il giorno prima aveva scalato Falzarego e Pordoi e Sella come un ossesso, accelerando, sforzando, scattando, ma niente, lo svizzero non si era mai staccato. Aveva perso solo duecento metri sul Pordoi, ma nella discesa era rientrato facilmente come fosse appena partito. Prima di entrare a Bolzano avevano fatto due chiacchiere, poi l’Airone aveva detto: “Il Giro è tuo, a me la tappa”. L’accordo è semplice: tu non sprinti, io domani non attacco.
Vane furono le parole del fidato Sandrino Carrea che dietro a quel naso grande quanto un campanile diceva che il Giro poteva essere ancora vinto. La parola era data e un campione non se la sarebbe rimangiata.
La Bianchi era ormai rassegnata al secondo posto quando Ettore Milano, un’altra delle ombre del Campionissimo, vide Koblet farsi una foto con i tifosi. E vide soprattutto i suoi occhi: cerchiati e rossi. Lo disse a Coppi, ma la risposta fu la solita: i patti non andavano traditi.
I patti però in due si fanno e in due si rispettano, lealtà e cavalleria dipendono dal comportamento di entrambi. E così quando fecero leggere a Fausto le dichiarazioni di un compagno di squadra dello svizzero che diceva che Koblet avrebbe potuto dare due minuti a Coppi, ma si era trattenuto per lasciare la vittoria al vecchio campione, l’Airone decise che le ali forse non le avrebbe tenute chiuse.
Serviva una trappola, l’attacco non poteva essere palese. Così quando si ritrovarono in dieci a metà dello Stelvio, Coppi si avvicinò a Defilippis: “Cit, dai te una botta?”. “Ma non ne ho più”. Poi si zittisce, si ricorda dell’anno prima e scatta. Alla sua ruota non va nessuno. Coppi perde uno, due, cinque metri. E quando scatta Koblet per raggiungere il Cit, il patto poteva ritenersi sciolto. Lo svizzero aveva attaccato, l’avevano visto tutti. Coppi si alzò sui pedali e spiccò il volo. “Mi passò in un tornante ed ebbi paura. Sembrava una moto. Spingeva un rapporto impressionante. Non ho mai più visto niente di simile nel ciclismo”, ricordò Defilippis.
L’Airone scollinò con quattro minuti e mezzo sulla maglia Rosa, in discesa però Koblet, da egregio discesista, iniziò a guadagnare. Disegnava curve come fossero quadri. Una però non la vide. Cadde. Si rialzò. Forò. Si rimise in sella. Disse addio al suo secondo Giro. Per Fausto quello fu il quinto, tredici anni dopo il primo. Fu in quel momento che dalla storia entrò nella leggenda.
Vincitore: Fausto Coppi in 118 ore 37 minuti 26 secondi;
secondo classificato: Hugo Koblet a 1 minuto e 29 secondi; terzo classificato: Pasquale Fornara a 6 minuti e 55 secondi;
chilometri percorsi: 4.035.