Ciclisti mentre salgono il Mortirolo

I voli su e giù dal Mortirolo di Leonardo Sierra: meno 27 al Giro100

Giovanni Battistuzzi

Al Giro d'Italia del 1990 venne scalato per la prima volta una tra le salite più dure d'Europa. Il corridore venezuelano staccò tutti prima di rischiare di perdere la tappa cadendo tre volte in discesa

Milletrecento metri di dislivello, dodici chilometri, trentadue tornanti, almeno da Mazzo, Valtellina, qualcosa meno da Monno, val Camonica. Non è salita, è scalata, non è strada, è parete, più che ciclismo, arrampicata. Passo della Foppa, almeno sulla carta geografica, ma non rende l’idea. Il nome è altro, Mortirolo, e basta questo per capire montagna e storia. Mortirolo perché non c’è speranza, non c’è nessuna via d’uscita. Mortirolo perché è sentenza, colpevolezza, non c’è speranza. Ci si inerpica su un pendenze che sono lame, almeno un taglio è inevitabile. Mortirolo, perché crudele è perfido, perché non bastavano due versanti, ce ne volevano quattro e tutti e quattro irti e interminabili, perché qui si moriva in combattimento. E si moriva davvero. Storia di guerre mondiali, sia Prima che Seconda. Dal 1916, contro gli austriaci, da qui si saliva per difendere gli avamposti sul Monte Pagano, dal 1944, lotta partigiana, due battaglie, tra febbraio e maggio. Poi l’oblio, rimaneva il ricordo e una mulattiera che si arrampicava verso il valico, sterrata, sconosciuta, solitaria. Inutile tagliare per raggiungere Bormio dalla val Camonica, meglio allungare per l’Aprica, più comoda e veloce.

Alla fine degli anni Ottanta la riscoperta. La ghiaia divenne asfalto, le armi vennero dimenticate, si imbracciarono i manubri. La lotta divenne a pedali. La guerra si trasformò in ascensione, i fucili in ruote e scatti. La storia iniziò il 3 giugno del 1990. Diciassettesima tappa, da Moena all’Aprica, 223 chilometri, prima il Passo di Costalunga, poi il Passo della Mendola, il Passo del Tonale, infine l’attrazione principale: il Mortirolo, novità ed esplorazione. Il lato è quello sbagliato, quello meno duro, il più regolare. Su quelle rampe si involò un giovane sconosciuto: faccia da indio, fascetta tergisudore a contenere lunghi capelli neri, la leggerezza dello scalatore, l’incoscienza del primo Giro. Quello era il Giro di Gianni Bugno con la Maglia Rosa sulle spalle dalla prima all’ultima tappa. Una superiorità era netta, indiscussa. L’aveva messa in strada sia a cronometro che in salita.

Quel giorno la fuga partì dopo pochi chilometri dal via. Erano in quindici e Leonardo Sierra era tra gli avanguardisti. Aveva tirato forte sin dai primi chilometri, il vantaggio era ampio, dall’ammiraglia arrivò l’ordine di aspettare, di starsene buono e attaccare negli ultimi chilometri della salita. Sierra però vedeva gli altri cercare aria, mentre lui sulla bicicletta sembrava giocasse. Partì e lo fece a testa bassa, senza guardarsi indietro, senza incrociare lo sguardo verso l’ammiraglia. La sua fu ascesa veloce, sofferenza solitaria, applausi. In cima ci arrivò con oltre tre minuti sul secondo, fosse stato lassù il traguardo sarebbe stato tripudio.

 

Il passo era valico, non destinazione. E se la salita era stata esaltazione, la discesa divenne martirio. Sierra, come gli scalatori sudamericani di allora, conosceva solo un lato della montagna, quella da affrontare a naso all’insù. Il resto fu teatro dell’assurdo. Sierra in sella era rigido, sbagliava le  curve, cadde due volte. Perse oltre due minuti, gliene rimaneva uno su Alberto Volpi, riuscì a conservare cinquantadue secondi di vantaggio all’Aprica.

 

Vincitore: Gianni Bugno in 91 ore 51 minuti e 8 secondi;

secondo classificato: Charly Mottet a 6 minuti e 33 secondi; terzo classificato: Marco Giovannetti a 9 minuti e 1 secondo;

chilometri percorsi: 3.450.