Il mondo alla rovescia di Cadel Evans: meno 15 al Giro100
Al Giro d'Italia del 2002 per la prima volta un australiano vestì la Maglia Rosa. Evans davanti a tutti rimase però solo un giorno: sul Passo Coe fu vittima di una delle crisi più crudeli della storia della corsa
Quel giorno in Maglia Rosa non doveva esserci lui. Da Groningen, Olanda, sede d’avvio del Giro d’Italia del 2002, era partito come scudiero, gregario in casacca Mapei di Stefano Garzelli. Poi era successo di tutto. Il Probenecid, sostanza illecita perché coprente di altre sostanze, rinvenuta nel sangue del capitano, la cocaina di una caramella nelle urine di Gilberto Simoni, il contatto illecito di Francesco Casagrande. I tre favoriti tutti a casa e una corsa nuova, dolomitica, ancora tutta da scoprire. Soprattutto per lui, che era Cadel Evans, che in mountain bike era andato forte in gioventù e che la bici da strada l’aveva iniziata a cavalcare l’anno prima, che veniva dall’altra parte del mondo, Australia.
Il giorno precedente da Conegliano era partito da secondo della classifica generale, all’arrivo a Corvara si era ritrovato davanti a tutti. Primo e primo australiano a vestirsi di Rosa. E sotto le guglie delle Dolomiti, in un “paesaggio da National Geographic, uno spettacolo incredibile”, disse, ripartì con la certezza che sarebbe stata dura portare quella maglia sino a Milano, perché “questa è una sorpresa, a tutto ero preparato, ma alla Maglia Rosa no, è un onore incredibile, una responsabilità”. Ogni onore però nasconde un onere e ogni responsabilità un peso e, almeno nel ciclismo, almeno per Gino Bartali, ci vogliono “spalle larghe, palle dure e una certa capacità di portare entrambe”.
Cadel Evans aveva entrambe queste caratteristiche. Lo dimostrò durante la sua carriera, lo dimostrò mettendo in bacheca un Tour de France e un Mondiale. Quel 30 maggio però, seguendo i 222 chilometri che congiungevano Corvara in Badia al Passo Coe, sopra Folgaria, aveva ancora 25 anni, poca esperienza e troppa eccitazione da prima volta. E la sorpresa, l’inesperienza da comando, l’emozione di territori inesplorati possono portare sconvolgimento, ribaltare tutto in pochi chilometri. E’ la brutale bellezza del ciclismo.
Cadel Evans aveva pedalato davanti, aveva la consapevolezza di sentirsi bene, di poter reggere il ritmo dei migliori, la gamba buona per provare ad allungare nel finale per aggiungere secondi ai pochi che aveva di vantaggio sui rivali. Tanto più che Dario Frigo, secondo a sedici secondi, e Aitor Gonzales, quarto a ventiquattro, avevano già ceduto, si erano già inabissati.
Mancavano dieci chilometri alla cima e l’australiano chiese al compagno Andrea Noé di accelerare per scremare il gruppetto dei superstiti. Ne mancavano nove invece quando la luce si spense, Tyler Hamilton provò lo scatto, Cadel Evans non rispose, perse le ruote dell’americano, iniziò il suo calvario. Davanti tutti si guardarono, quasi si fermarono per lo stupore: la Maglia Rosa era piegata sul manubrio, le sue ruote quasi non scorrevano, sembrava che l’asfalto lo stesse inghiottendo. Perdeva metri a decine, scomparve. Paolo Savoldelli capì per primo cosa stava succedendo, scattò per scappare dalla crisi dell’australiano, verso la conquista del suo primo Giro d’Italia. Iniziò a danzare sui pedali mentre minuti e minuti dietro Evans si esibiva in una zig zag disperato, estremo tentativo di evitare nell’abisso in cui era entrato. “Mi sono sentito svuotato all’improvviso”, disse all’arrivo, diciassette minuti dopo Pavel Tonkov che quella tappa la vinse, un quarto d’ora alle spalle di Paolo Savoldelli che sul Passo Coe si vestì di rosa e di rosa arrivò a Milano.
Vincitore: Paolo Savoldelli in 89 ore 22 minuti e 42 secondi;
secondo classificato: Tyler Hamilton a 1 minuto e 41 secondi; terzo classificato: Pietro Caucchioli a 2 minuti 12 secondi;
chilometri percorsi: 3.334.