Marzio Bruseghin

Marzio Bruseghin e l'insegnamento degli asini: meno 9 al Giro100

Giovanni Battistuzzi

Al Giro d'Italia del 2008 il corridore veneto riuscì a salire sul podio dopo una carriera passata a faticare per gli altri

Ad andare in bicicletta lo si impara per strada, pedalata dopo pedalata, uscita dopo uscita. Ad andare forte no, quello è naturale, innato. Il resto lo si può apprendere dai compagni, dai direttori sportivi, oppure dagli asini. Marzio Bruseghin da questi comprese l’arte della testardaggine, della pazienza, soprattutto quella della caparbietà. Perché Marzio Bruseghin era questo: testardo, paziente, su tutto caparbio. Un cagnaccio, almeno in gergo, uno che non mollava mai, un mulo, almeno per prossimità. A casa li accudiva, li osservava, godeva della loro tranquillità e quando correva ne imitava i modi e lo spirito, la perseveranza. Perché quando nelle categorie giovanili eri abituato a essere sempre davanti e molto spesso a vincere è sempre difficile cambiare vita, adeguarsi a una dimensione diversa. C’è chi smette, c’è chi vive di rimorsi e complotti universali a suoi danni e chi accetta il ruolo, lo porta avanti con grandiosa perseveranza. Marzio Bruseghin divenne gregario, uno dei migliori, uno di quelli che davanti al gruppo sono locomotive e danno tutte le energie che hanno per la causa altrui: fatica - e tanta - donata agli altri.

Alessandro Petacchi lo definì “essenziale”, Unai Osa – terzo al Giro d’Italia del 2001 – “bestiale”, Rigoberto Uran “fuoriserie”. Alfredo Martini, per decenni commissario tecnico della Nazionale, non aveva dubbi: “Uno che riesce a tirare per cinquanta sessanta chilometri a tutta come fa Bruseghin non può essere altro che un grandissimo atleta”.

 

Un grandissimo atleta Bruseghin lo era stato sempre, solo che quando si mena sulle pedivelle per decine e decine di chilometri, che l’arrivo è ancora una lontana ipotesi e le telecamere sono ancora spente, il rischio è quello di essere sottostimati dal pigro pubblico televisivo che giudica la grandezza di un atleta in base agli ordini d’arrivo. E Bruseghin ci impiegò oltre trent’anni a comparire in questi.

 

Nel 2006 Brus vinse il campionato italiano a cronometro, al Giro d’Italia 2007 la cronoscalata verso il Santuario di Oropa, un lampo di quasi tredici chilometri tutti a salire, troppo veloce però per gustarlo davvero. E così meglio i trentanove chilometri e quattrocento metri che separavano Pesaro da Urbino per dimostrare a tutti che essere un asino non è un’offesa, è un pregio. Marzio Bruseghin decise che quel filo di strada che si raggomitolava verso gli appennini, in quel territorio dove la pianura è soltanto un’idea perché senza nessuna attinenza con la realtà quotidiana, doveva essere territorio di redenzione per tutti quelli come lui che alla gloria avevano preferito il lavoro, agli allori il fieno da imballare. Fu un boato di 56 minuti e 41 secondi, ma silenzioso perché la bicicletta è fruscio, la campagna al massimo cinguettio. Alle sue spalle Contador e Kloden e Pinotti e Savoldelli e Menchov, cioè tutto il meglio di allora, cioè tutto il meglio a cronometro. Terzo successo in carriera, l’ultimo. Terzo come il posto finale nella classifica di quel Giro d’Italia. Perché quando una cosa la si fa, va fatta bene, che sia gregariato o corsa d’alta classifica, che sia fatica per altri o per una volta per sé stessi. Perché, soprattutto, la qualità è nulla senza quantità, almeno a dirla con Guido Foddis, e di quantità di soddisfazioni su quel terzo gradino del podio di Milano ce ne era a bizzeffe.

 

Vincitore: Alberto Contador in 89 ore 56 minuti 49 secondi;

secondo classificato: Riccardo Riccò a 1 minuto 57 secondi; terzo classificato: Marzio Bruseghin a 2 minuti 54 secondi;

chilometri percorsi: 3.423.