La redenzione di Michele Scarponi: meno 8 al Giro100
Al Giro d'Italia del 2009 il marchigiano vince a Mayrhofer con dopo una fuga di 200 chilometri. Un'impresa da ciclismo antico, perché "io sono un corridore all’antica”
Resistere, resistere, resistere. Altro non si può fare quando si è soli al comando e anche il compagno di avventura si lascia andare in preda ai crampi, dietro corrono a tutta con l’unico intento di recuperare chi è davanti e lanciare la volata ai velocisti e i chilometri che distano dal traguardo diminuiscono tanto quanto i secondi di vantaggio. Resistere, resistere, resistere si ripeteva Michele Scarponi verso Mayrhofen, Tirolo, Austria, poche centinaia di case e circa tremila anime ad animarlo quando la stagione sciistica è conclusa.
Era partito che ancora era mattino avanti al gruppo a cercare fortuna, quattro persone al fianco e voglia di prendere vento tra cime e valli alpine. Era partito perché l’idea di fare classifica si era già spenta alle prime salite dolomitiche, ma la voglia di buttarsi alle spalle anni brutti era più forte, spingeva a tentare l’azzardo. Era stato un anno e mezzo fermo, storia di Spagna, di metodi che si scoprirono non essere leciti, di fiducia mal riposta nella squadra. Aveva ammesso, pagato, ripreso, perché è questione delicata il ciclismo, dove a volte si sbaglia, ma viene concessa giustamente la possibilità di redimersi, di dimostrare il proprio valore, di far evaporare i sospetti. E in quell’azione, in quella determinazione di volare, Scarponi si tolse di dosso tutto, si ricostruì e ricostruì una carriera che in seguito si dimostrò eccellente, senza macchia, sino alla pagina finale, tristissima. Perché un "grande corridore non è quello che mai sbaglia, ma chi è capace di rappresentare degnamente l'uomo, i suoi errori, le sue debolezze", scrisse Gianni Brera a proposito di Fausto Coppi.
Era il 14 maggio, era la sesta tappa e Michele Scarponi ritornò a essere Aquila, quella di Filottrano, quella che trovava nella salita il suo terreno ideale e nell’ardore la sua dimensione. Aveva duecento chilometri di fuga nelle gambe quando la strada iniziò a salire che il traguardo era a nemmeno quattrocento metri, si girò e vide ciò che avrebbe voluto vedere, ciò niente, cioè il vuoto. Allora guardò il cielo sorridendo, come faceva sempre in corsa, chiuse la zip della maglietta e allargò le braccia. Fu il primo a tagliare il traguardo, mezzo minuto avanti a tutti, abbastanza per aver compiuto un’impresa eccezionale, qualcosa da ciclismo antico, “perché io sono un corridore all’antica”, disse anni dopo a Marco Pastonesi.
Un corridore all'antica, perché antica è la fatica, l'incapacità di essere uno normale. Uno da azzardo e fuga, una da classifica e alta, uno da vittorie, magari non molte, ma sempre incredibili, perché mai banali. Come a Benevento, allo sprint, davanti a gente più veloce di lui, come l'anno successivo a martellare sul Mortirolo prima, a beffare Basso e Nibali, compagni di squadra e di avventura, l'anno dopo. Come sul Colle dell'Agnello l'anno scorso, quando alla vittoria personale preferì quella di squadra, quando da solo e lanciato verso la vittoria, rallentò, aspettò lo Squalo, lavorò per lui, lo lanciò e al traguardo esultò come se a vincere fosse stato lui. Un corridore all'antica, perché quella era l'epoca della generosità.
Vincitore: Denis Menchov in 86 ore 3 minuti 11 secondi;
secondo classificato: Danilo Di Luca a 41 secondi; terzo classificato: Franco Pellizotti a 1 minuto 59 secondi;
chilometri percorsi: 3.456.