Il ciclismo cingolato di Ryder Hesjedal: meno5 al Giro100
Il canadese riuscì a conquistare il Giro d'Italia del 2012 dopo una lotta di tre settimane con lo spagnolo Purito Rodriguez. Fu una vittoria di cattiveria e resistenza
A vederlo pedalare Ryder Hesjedal non era granché. Curvo che sembrava appeso al manubrio, storto che sembrava andare avanti a stento, ondeggiante in un ghigno che sembrava essere sempre in difficoltà, anche se in difficoltà non lo era quasi mai. E’ che veniva dalla mountain bike, che è sì bicicletta, ma solitaria, boschiva, sofferenza individuale. Il ciclismo è anche altro, è gruppo, pedalata collettiva; poi libero spazio alle proprie peculiarità. Per questo le ruote dei migliori le perdeva spesso quando c’era da sgomitare fianco a fianco, questione di disabitudine; per questo le ruote dei migliori non le perdeva quasi mai quando la fatica diventava tanta. Quel lungagnone dalle gambe a stecco e dalle spalle larghe, in un modo o nell’altro trovava il modo di recuperare il terreno perso. Lo faceva da dietro gli occhialoni scuri, con la cocciutaggine di uno che ama andar per montagne. Ryder Hesyedal era una bestia da traino, non gli pesava sgobbare, gli pesava la compagnia altrui.
Non era elegante, “e chissenefrega, mica siamo a una sfilata”, non era fenomeno, “vestire di rosa come Merckx? Una bestemmia”, ma era in ogni caso uno spettacolo, perché vederlo risalire posizioni, andar di spalle e di manubrio, lottare con tutti i migliori era la certezza che il cuore, inteso come passione e ostinazione, vale ancora qualcosa nel ciclismo di oggi. E non è poco.
Hesjedal era canadese e il Canada è posto esotico per il ciclismo, altrove non meglio identificato. Forte dicevano, ma pedalare è una cosa, stare in gruppo è un’altra. Forte dicevano, ma vedete come pedala.
Pregiudizi territoriali che lo lasciarono per un po’ ai margini, poi arrivò Jonathan Vaughters uno che quando ancora correva lo chiamavano il Gatto per via della sua capacità di guidare la bicicletta, alla sua abilità di saltare di qua e di là senza avere paura. Per molti suoi colleghi un mezzo matto, ma a suo modo geniale. Disse nel 2007: “Il canadese ha solo bisogno di capire cos’è il ciclismo su strada e poi saranno problemi per gli altri”. Lo derisero. Lui si prese il tempo di capire, poi nel 2009 vinse alla Vuelta, nel 2010 in California e fu settimo al Tour de France. Vaughters non disse niente, sorrise. Sorrise anche l’anno successivo quando Ryder cadde praticamente sempre e sprecò qualsiasi occasione. Disse: “La sfortuna ci vede benissimo, passerà”. Lo derisero ancora.
Arrivò il Giro d’Italia del 2012 e gli scettici si dovettero ricredere. Il canadese prende la Maglia Rosa alla settima tappa, a Rocca di Cambio, merito della squadra che vince la cronosquadre di Verona. La perse, la riprese, la riperse. Il duello fu serrato e avvincente, impronosticabile. A lottare davanti al gruppo con lui lo spagnolo Joaquim Rodriguez. Due settimane a inseguirsi e a studiarsi, una partita a scacchi, ma con pedivelle e manubri al posto di cavalli e regine. Tattica e logoramento, più che spettacolo e teatro. Sino all’ultimo, sino al palcoscenico conclusivo: Milano, 28,2 chilometri a cronometro, uno dopo l’altro, entrambi soli. Trentun secondi a dividerli. Il canadese fu preciso e impeccabile, recuperò il tempo necessario, esagerò di sedici secondi. Primo, Maglia Rosa e, quella volta non era uno scherzo.
Vincitore: Ryder Hesjedal in 91 ore 39 minuti 2 secondi;
secondo classificato: Joaquin Rodriguez a 16 secondi; terzo classificato: Thomas De Gendt a 1 minuto 39 secondi;
chilometri percorsi: 3.502.