L'orgoglio biancoceleste di Inzaghi e l'addio certo di Spalletti alla Roma
Se da un lato il derby di Roma ha promosso Inzaghi, dall'altro ha (forse definitivamente) sancito l'addio di Luciano Spalletti alla panchina giallorossa. Lui aveva cominciato a martellare a settembre, senza mai abbandonare il mantra a ogni domanda sul tema: “Il mio futuro? Dipende dai risultati”.
Che cosa fai quando viene a mancarti l'uomo di riferimento? Abbozzi, e confondi l'avversario. Come ha fatto Simone Inzaghi, in una partita mai banale come il derby di Roma. Prima del match Ciro Immobile (venti gol in campionato, non bruscolini) ha alzato bandiera bianca per un virus intestinale. Logica avrebbe voluto vedere un altro centravanti al posto suo, invece Inzaghi ha optato per Keita. Una punta, sì, ma esterna. E dietro di lui uno che trequartista non è, come Milinkovic-Savic. Risultato? Lazio compatta e veloce, Roma incapace di prendere contromisure. Ed è stata vittoria, come in campionato non capitava da otto partite. La Lazio, per ritrovarsi più brava della Roma, aveva dovuto rifugiarsi alla Coppa Italia, conquistandola nel derby del 2013 e tornando in finale quest'anno, dopo aver buttato fuori i giallorossi. In serie A, invece, solo bocconi amari. Fino a domenica, fino alla partita che ha certificato (forse definitivamente) le qualità di Simone Inzaghi. Uno che aveva vissuto nell'ombra del fratello Pippo come calciatore, uno che ha finito per ritrovarsi su una panchina due volte per caso, secondo la manualistica del pallone. Classico esempio da esonero, la prima: c'era da sostituire un tecnico (Stefano Pioli, cacciato proprio dopo un derby, perso 4-1 il 3 aprile di un anno fa), avanti con chi allena la Primavera. Inzaghi, per l'appunto. E tipica soluzione tampone in momenti confusi, la seconda: illuso Prandelli, illusa da Bielsa, la Lazio aveva optato per una soluzione interna in vista del campionato. Inzaghi, per l'appunto. Il quale, una volta preso possesso della squadra, ha messo nel lavoro il senso dell'appartenenza a una maglia, come in casa biancoceleste non capitava da tempo, e capacità professionali inaspettate. Ha ridato fiducia a Immobile (le venti reti di cui sopra), ha rigenerato giocatori che avrebbero voluto tanto andare via in estate (Biglia leader del centrocampo, Felipe Anderson e Keita frecce dell'attacco), ha costruito un gruppo abile a non dare punti di riferimento all'avversario. Il gol di Basta non è stato soltanto il primo con la maglia della Lazio, ma è stato quello del diciassettesimo giocatore diverso in stagione. Certo, ci sono ancora aspetti su cui lavorare, vedi la polemica di Keita dopo la rete. Ma Inzaghi ha saputo regalare orgoglio a una parte di Roma e solidità alla classifica. Gli mancano due punti per eguagliare il primato stagionale (69) realizzato da Pioli due anni anni fa, in quattro partite si può fare. Impensabile in estate.
Se da un lato il derby di Roma ha promosso Inzaghi, dall'altro ha (forse definitivamente) sancito l'addio di Luciano Spalletti alla panchina giallorossa. Lui aveva cominciato a martellare a settembre, senza mai abbandonare il mantra a ogni domanda sul tema: “Il mio futuro? Dipende dai risultati”. Che, nell'ordine, sono stati: eliminazione dalla Champions League a opera del Porto, eliminazione dell'Europa League a opera del Lione, eliminazione dalla Coppa Italia a opera della Lazio, eliminazione dalla corsa scudetto a opera di una Juventus inavvicinabile e di una Lazio che nel derby ha tolto le ultime speranze legate alla contabilità. E ora la classifica vede il Napoli inseguire il secondo posto dei giallorossi, distante appena un punto. Un sorpasso che – se operato – significherebbe di nuovo stagione da anticipare per gli spareggi Champions. Quelli, dolorosi, del Porto. Una serie di risultati che anticipa e certifica quello che dovrebbe essere l'esito finale del campionato, con il divorzio da Spalletti. Lui aveva sempre rimandato l'eventuale discorso rinnovo, proprio in attesa dei risultati. Ma in cuor suo sapeva quale sarebbe stato il filo logico dell'ultimo capitolo. Una trama già intuita dallo spogliatoio, sempre abile a intercettare gli umori nascosti. Vedi la malcelata sopportazione di Totti oppure la polemica di Dzeko al cambio contro il Pescara. Una versione rafforzata dall'allenatore con le polemiche sulla volatilità dell'ambiente (imperdonabile per Roma e per la Roma) e con le scelte sul campo, in contrapposizione a quelle delle società: nel derby sedevano in panchina sei degli ultimi sette acquisti. E l'1-3 preso scrive la parola fine sullo Spalletti-bis, sfaldatosi tra le lacerazione interne come si sfaldavano un tempo i governi democristiani.