LaPresse - Spada  

Cari tifosi, hanno ragione Donnarumma e Mino Raiola. Ecco perché

Massimiliano Trovato

Il paradosso del calcio come industria e la malattia del tifo

 

Firmare o non firmare? Il tiramolla del rinnovo di contratto tra Gianluigi Donnarumma e il Milan è destinato a occupare ancora a lungo l’estate degli orfani del pallone – tra dietrologie, reciproche recriminazioni e ripensamenti repentini. La guerriglia mediatica in corso ha, però, offuscato le coordinate della questione, che si fa parabola di un certo modo d’intendere lo sport e, più ampiamente, la vita pubblica; e le reazioni viscerali di tifosi (e questo è forse comprensibile) e osservatori (e questo non lo è affatto) hanno soppiantato l’analisi razionale nell’esame di una vicenda che non può essere compresa davvero, se non attraverso il punto di vista dei due assoluti fuoriclasse che ne sono protagonisti.

 

Il primo è, ovviamente, il ragazzo del ‘99 rossonero: un talento sterminato, un fisico formidabile e, ancor più di questo, la freddezza di un pensionato svizzero incarnata in un diciottenne napoletano. Predestinato se mai ce n’è stato uno, ma abbastanza lucido da pretendere di governare la propria fortuna – sin da quando, appena adolescente, fece saltare l’ingaggio all’Inter per potersi arruolare nella squadra del cuore. Donnarumma sa di avere una carriera luminosa di fronte a sé, ma sa anche che rinunciare all’uovo di struzzo madrileno per la gallinella rachitica di via Aldo Rossi può rivelarsi un azzardo imperdonabile nella carriera aleatoria di uno sportivo.

 

L’altro fuoriclasse è Mino Raiola, l'inarrestabile agente approdato dalla Campania all’Olanda ancora in fasce – ed è l’unico trasferimento della sua vita che non gli abbia fruttato provvigioni. Non direttamente, almeno. Il padre meccanico si mette in testa di sfamare gli olandesi e si reinventa oste. Mino gira tra i tavoli, studia gli avventori e al presidente della squadra locale – ospite fisso – fa sapere che “non capisce niente di calcio”; “vediamo cosa sai fare tu”, gli risponde quello e lo nomina responsabile del settore giovanile e poi direttore sportivo, a vent’anni. E Raiola immediatamente capisce cosa serve per fare calcio: una montagna di quattrini. Ma è l’Ajax il supermercato del calcio olandese: fa incetta di talenti e al momento opportuno li esporta, servendosi dei soliti intermediarî, e lasciando le briciole agli altri club e agli altri procuratori. Come abbattere il monopolio dei Lancieri? Mino propone al Napoli di replicare il loro modello con l’Haarlem, ma Ferlaino cincischia. Allora decide di mettersi in proprio: firma un accordo col sindacato dei calciatori olandesi e ne assume la rappresentanza esclusiva per l’estero.

 

A venticinque anni traghetta Roy al Foggia: ci guadagna una moglie e un’amicizia turbolenta con Zeman; l’anno dopo aiuta a portare Bergkamp all’Inter. Nedved è la chiave per l’Olimpo, poi arriva Ibra. S’incontrano: Porsche e orologio d’oro, lo svedese; jeans e panza trattenuta a stento dalla t-shirt, Mino – “sembrava uno dei Soprano”, dirà Zlatan. Ma quello lo inchioda: “vuoi essere il migliore o il più ricco?”. Sottinteso: tu pensa a essere il migliore, che a farti diventare il più ricco ci penso io. Promessa mantenuta. Già che c’è, diventa ricco anche lui, abbastanza da comprarsi la villa di Al Capone. Continuano a dargli del “pizzaiolo”, come se arrivare a fatturare 500 milioni in commissioni partendo da un ristorantino della provincia olandese fosse una colpa da espiare e non una medaglia al valore; lui non si scompone e li corregge: “veramente, facevo il cameriere”.

 

Il metodo Raiola si basa su due assunti elementari. Il primo: meno soldi si spendono per i cartellini, più ne restano per salarî e provvigioni. (Corollario: se non è possibile limitare l’entità del trasferimento, tanto vale garantirsi una fetta anche di quello: vedi l’affare Pogba.) Il secondo: ogni volta che un calciatore fa le valigie, si può creare valore. L’accusano di spostare i suoi assistiti come pedine: eppure sono loro a firmare i contratti – quelli con le società, s’intende, perché i rapporti con Mino, invece, si reggono sulla fiducia reciproca. Ma chi lo sposa difficilmente l’abbandona. Anche perché Raiola, con il suo stile rusticano, è il perfetto parafulmine. Ti riempie le tasche e ti salva la faccia.

 

Paradossalmente, il gioco non ha funzionato proprio con Donnarumma – in prospettiva, il prodotto più perfetto della ditta – perché l’apparente contrasto tra il professato milanismo del ragazzo e il gran rifiuto affidato al suo procuratore ha catalizzato tutti i tic di una società appassionatamente votata al declino: l’invidia sociale, il disprezzo per il denaro, la diffidenza per il talento, l’elogio peloso dell’esperienza, un esasperato spirito di gruppo. L’indole gitana di Ibrahimovic non scandalizza nessuno, ma da Donnarumma pretendevamo fedeltà incrollabile. Ma fedeltà a cosa, esattamente? Al progetto di una società che non vince uno scudetto da sei anni e che prevede di riuscirci nuovamente solo tra cinque? A un movimento calcistico incapace di reggere il passo delle locomotive inglesi, spagnole, tedesche? A un’idea di società che antepone l’appartenenza cieca alla realizzazione delle proprie possibilità?

 

Capita, così, che gente che venderebbe la madre per un biglietto omaggio si permetta di discutere se milioni di stipendio in più o in meno costituiscano una differenza significativa; o che cinquantenni la cui maggiore distinzione nella vita è l’incarico di caporeparto tra gli ultras affermino l’importanza della gavetta e di una carriera paziente. Padri di figlie sgualdrine e figli eroinomani esigono il pugno di ferro della società (Donnarumma fermo per un anno a raccogliere mirtilli nei boschi intorno a Milanello); mariti che, senza le mogli, morirebbero di fame descrivono il calciatore come un fantoccio nelle mani del procuratore – salvo, poi, dimenticarsene e passare la giornata a insultarlo sui social.

 

Non è un caso se il tifo è una passione che si chiama come una malattia: una malattia tendenzialmente incurabile. È il paradosso del calcio come industria: occorre rinnovare continuamente l’offerta, sperando che la domanda funzioni sempre nello stesso modo. E anche i tifosi più evoluti, che riconoscono il diritto degli atleti di organizzare le proprie (brevi) carriere come ritengono più opportuno, rimpiangono il fantomatico calcio delle bandiere. Ma il punto non sono le bandiere: il punto sono il consociativismo e il masochismo di un calcio vissuto come vocazione militaresca. Quella del calciatore è una professione; e quel che Donnarumma reclama è la libertà di credere nel proprio talento e coltivarlo fino in fondo, anche a costo del biasimo dei conformisti, così da raggiungere gli obiettivi (sportivi ed economici) che la sua abilità e il suo impegno gli permetteranno di conseguire. Certo, poi c’è l’amore; e i milanisti fanno bene a credere in un lieto fine che, con il passare dei giorni e il lavorio tenace delle diplomazie, appare un po’ meno improbabile. Purché non dimentichino che il bacio alla maglia è eterno finché dura; e che l’amore vero è quello che si sceglie ogni giorno, non un ergastolo decretato in curva.

Di più su questi argomenti: