Ecco il Tour all'italiana
Da Düsseldorf parte la corsa francese. E mai come quest’anno nella scelta del percorso la Grande Boucle ricorda il Giro. Ma non convince tutti
Giallo è il colore. Ma senza delitto. L’attesa e l’atmosfera però ci saranno tutte. Giallo come maglia e come ambientazione, che da oggi per tre settimane sostituirà il tricolore, che lassù si pronuncia tricolòr e che è bleu, blanc, et rouge. Giallo che è sogno e ambizione, sempre contorno, maillot jeaune, Tour de France. Ventitré giorni su e giù per la Francia, ma prima per Germania e Belgio e Lussemburgo, perché così han voluto gli organizzatori, perché oltre a essere corsa è brand e ogni tanto va esportato, per lustro e per assegni milionari.
Da Düsseldorf, Germania, parte la 104esima edizione della corsa più ricca e famosa del mondo. Ormai un brand internazionale
Düsseldorf, partenza, quattordici chilometri tedeschi e poco più a cronometro, poi Liegi, oltre duecento chilometri a evitare il Reno, a salutare la Ruhr e poi a valicar le Ardenne, ma lontano dal tracciato della Doyenne, la Liegi-Bastogne-Liegi, a esplorar nuove strade. Quelle completamente diverse dalle solite, quelle buone per le ruote veloci, protagoniste mai viste del ciclismo di quel pezzo di nord d’Europa. Infine il ritorno in Francia attraverso il Lussemburgo, su e giù per côte sconosciute, che provano a ricordare quelle valloni, ma perdono di trasporto ed entusiasmo senza il suono francofono: la Redoute, la côte de la Roche aux Faucons, lasciano spazio a quella de Wiltz e a quella d’Eschdorf. Un preambolo internazionale che non è sorpresa né novità, che anzi ormai è diventato se non tradizione quanto meno normalità che si alterna ogni qualche anno: Utrecht 2015, Leeds 2014, Liegi 2012 e via così.
Le novità sono tutte in terra transalpina, tutte in quel ricciolo, La Grande Boucle, che è stata via obbligata per un cinquantennio e via prediletta per un altro. Solco a pedali alla ricerca dei confini geografici della Francia, perché lì si affollano le bellezze: le spiagge atlantiche e mediterranee, le grandi montagne, il pavé che è segno distintivo di Fiandra, ma che è francese per suono e geografia, Roubaix.
Per Desgrange, il creatore e primo patron della gara erano "i corridori a doversi adattare al Tour, non il Tour ai corridori"
“Il Tour non cambia perché non ha senso cambiarlo, è perfetto così, è la corsa più dura al mondo”, disse nel 1929 l’ideatore della corsa nonché patron, Henry Desgrange, a un giornalista che gli aveva chiesto per quale motivo la gara si ostinasse a ripetere ogni anno un percorso quasi identico “del tutto inadatto ai potenti corridori francesi”. “Sono i corridori a doversi adattare al Tour, non il Tour ai corridori”, replicò.
Per quasi un quarantennio, dal 1903, anno della prima edizione, al 1939, l’ultima prima della Seconda guerra mondiale, il ricciolo non cambiò forma, fu il solito: da Parigi a Parigi percorrendo il periplo del “gran paese”, tra città e borghi conosciuti e riecheggianti di imprese e fughe passate. Il dopoguerra fu passaggio, da Desgrange al suo delfino Jacques Goddet, e portò qualche piccola novità, ma ben inserita nella tradizione. Venne deformato il ricciolo, ci fu l’addio dell’incipit parigino, mantenuto però come immancabile finale. Il resto rimaneva scelta: oraria o antioraria, temporalità dello scontro. Le Alpi con la loro musica di campanacci e i panorami di verde bosco e grigio argenteo, i Pirenei con il loro silenzio di verde stinto e ocra desolato. Prima l’una e poi l’altra, prima l’altra e poi l’una, a seconda dell’anno, alternanza, quasi gli organizzatori non si sentissero in dovere di dar loro una gerarchia. Perché Alpi e Pirenei non sono solo catene montuose, sono qualcosa di più, due modi di intendere la salita, il Tour, la fatica. Sono tesi e antitesi, giorno e notte. Le aristocratiche Alpi, cime e vallate di boschi e pascoli e baite che diventano villaggi e luoghi ricercati per vacanze e soggiorni; i solitari Pirenei, spazzati dal vento e corrosi dal sole, a tal punto che quando batte d’estate, l’asfalto si scioglie, si fa colla e tutto diventa inferno. Due modi di vincere o di arrendersi a sua maestà la montagna. Diversi e distanti, non solo geograficamente, anche umanamente. Mondi paralleli, universi differenti, uniti solamente dall’amore per la bicicletta, loro malgrado.
Anche quest’anno l’alternanza è rimasta, ma si è fatta differente, divenuta tracciato nuovo che tralascia, in buona parte, la tradizione, quello che è sempre stato, e guarda altrove. Volge lo sguardo lì dove un altro tricolore sventola, ma al blu preferisce il verde, al giallo, il rosa: l’Italia, ossia Giro.
Di quello che venne chiamato il "canovaccio perfetto" è rimasto ben poco. Tutto è stato modificato e mescolato. Il modello è l'Italia
Non più il classico copione, un rimescolamento. La prima cima che si tramuta subito in arrivo, che sarà il 5 luglio, quinta tappa, in apnea verso Planche des Belles Filles, ossia Vogsi, teatro della prima fuga montana della storia, quella di Hippolyte Aucouturier. Era il 1905, era la Nancy-Besançon, 229 chilometri, e quell’uomo dai baffi folti, dalla faccia allegra e dal basco in testa, pedalò solo dieci minuti avanti a tutti per oltre centoventi chilometri. Divenne per tutti “il Terribile”. Poi il Massiccio del Giura che si erge a primo giudice delle sorti ciclistiche dopo ventenni e ventenni di dimenticanza, abituato a essere confine tra Francia, Germania e Svizzera, uno spazio abbastanza lontano dalle Alpi per non essere preso in considerazione per le tappe decisive. Due frazioni di ascesa, di salite dure e arrivi impossibili da prevedere, dove fughe e rincorse possono abbracciare qualsiasi epilogo. Infine Pirenei che non sono i soliti Pirenei e Alpi che non sono quelle che abbiamo imparato a conoscere, almeno per successione e disposizione.
Uno sforzo di fantasia che strizza l’occhio ai vicini di casa, che prova a emulare la caotica anarchia del territorio italiano. Pianure, colline, montagne tutte “strette in una striscia di terra in un contorno di mare, venuta su tra gibbi ed eruzioni in un incanto di insensatezza”, almeno per lo scrittore Michel Butor, che viaggiò a lungo tra le strade della penisola. Strade “inadatte al moto, perfette per la contemplazione”, perfette soprattutto per il ciclismo. A loro deve rendere grazie il Giro, capace ogni anno di percorrerle ricavandoci sempre trame nuove, tanto da diventare caratteristica e necessità, fatica e imprevedibilità. “Il Giro più che una gara è un gioco d’azzardo. Non si può mai sapere cosa ci si debba attendere”, disse il campione francese degli anni Cinquanta-Sessanta Jaques Anquetil, “ci sono colli ovunque e quando mancano sono Alpi”. Per Louison Bobet, che il Tour lo vinse per tre volte tra il 1953 e il 1955, il Giro era un “fastidio”, un serpentone “fatto apposta per svuotarti le energie mentali”, un susseguirsi “di strappi che non permettono nemmeno di rifiatare e di salite che non si fa in tempo ad adattarcisi perché sono già finite”. Il transalpino in Italia ci venne quattro volte, ma sul gradino più alto non riuscì mai a finirci.
Louison Bobet
Un’orografia molteplice che è stata plasmata di anno in anno dagli organizzatori, inserendo strappi e salite, dosando sprint di gruppo, trappole da arrivo in solitaria. Una trama di strade che nel tempo si è modificata, che ha avvicinato le cime agli arrivi, sino a farli coincidere per anni con la presunzione di credere che lo spettacolo fosse solo il traguardo ascendente. Negli ultimi anni questa equivalenza tutta da dimostrare, ha rilasciato il posto a finali mutevoli, con le grandi cime sempre più di rado sede d’arrivo e in mezzo tempo e chilometri per rendere avvincente la corsa. Un cambiamento che è stato sconquasso e che ha regalato edizioni di ribaltoni e imprese, di lotte sino all’ultimo giorno e finali inattesi. Come quello di Vincenzo Nibali nel 2016, come quello di Tom Dumoulin un mese fa.
Una mutazione che dall’Italia si è trasferita in Francia, modificando in buona parte quel che eravamo abituati a chiamare Tour de France.
Per oltre un quarantennio la Grande Boucle era stata una formula. Una litania di altimetrie e di biciclette che si tramandava uguale a se stessa, di eventi, di fughe e di rincorse che cambiavano ogni anno, almeno per protagonisti e dinamiche, ma che seguivano un filo conduttore comune, quello che iniziò a tratteggiare nel 1975 Felix Lévitan, l’uomo scelto da Emilion Amaury, principale finanziatore della corsa dal secondo dopoguerra e poi proprietario, ad amministrare il Tour. Lévitan per anni fu il braccio economico di Goddet, la mente sportiva della corsa, poi, con l’aumento del giro d’affari, la crescita globale di interesse per la gara, il suo peso nella sala dei comandi aumentò. E con questa, l’idea che il Tour sarebbe dovuto essere “un mondiale di tre settimane, una cadenza di appuntamenti che permette ai migliori specialisti di eccellere nei loro campi, una vetrina per i più forti che diventava proprio per questo la vetrina prediletta del grande ciclismo”.
Di quello che venne chiamato il "canovaccio perfetto" è rimasto ben poco. Tutto è stato modificato e mescolato. Il modello è l'Italia
Erano anni nei quali il Giro aumentava d’interesse, sperimentava e tentava di recuperare il distacco che aveva sempre avuto dalla Grande Boucle, perché la prima, perché maestosa, perché francese, al tempo ancora lingua ufficiale del ciclismo. Il Tour poteva mutare e adeguarsi ai cambiamenti, innovando. Non lo fece, o meglio si limitò a estremizzare se stesso: cronometro sempre più frequenti e sempre più lunghe, tappe eterne tra cime e valli montane, su strade infinite e sempre all’insù, dove più che la pendenza a stroncare le gambe era il chilometraggio ascendente. Un massacro lungo tre settimane, un massacro che lasciava al suo termine molti sconfitti, un solo vincitore e applausi per chiunque fosse riuscito a giungere sugli Champs-Elysées, lì dove Lévitan decise di spostare la conclusione del carrozzone a metà degli anni Settanta. Il copione prevedeva quattro fasi: il festival della velocità iniziale, le cime pirenaiche e alpine – la successione cronologica dipendeva dagli anni, magari inframezzata da qualche escursione nel cuore geografico della Francia, il Massiccio Centrale – infine l’avvicinamento a Parigi, buono per fughe e glorie di giornata. Poi c’erano le prove contro il tempo, lunghe, estenuanti, a intervallare il cammino dei corridori.
Con l’arrivo di Jean-Marie Leblanc in cabina di regia nel 1989 tutto questo divenne istituzione, una forma di credo a pedali, un monolite istituzionale. I tempi dello spettacolo divennero fissi, a cambiare erano soltanto scenari e protagonisti. “Il Tour basta a se stesso, ha una sua forma e dimensione. Chi viene in Francia a correre deve sapere quello che trova e dimostrarsi il migliore. Non è vero che la corsa premia i più bravi a cronometro, premia il più forte e basta. E il più forte deve sapere andare anche a cronometro”, disse nel 1992 a un giornalista italiano che faceva notare come la salita non fosse abbastanza per ribaltare l’esito delle tappe contro il tempo. Una polemica durata anni, almeno sino a Marco Pantani che nel 1998 dimostrò a tutti che anche gli scalatori potevano primeggiare in terra di Francia, a patto di essere davvero i migliori.
Del “canovaccio perfetto” di Leblanc da oggi non rimarrà più nulla. Le fasi di corsa si sono mescolate, insidie sono state inserite praticamente a ogni tappa, seguendo l’esempio che da anni offre il Giro d’Italia, dove, a parte rare eccezioni, il colpo di mano lo si può mettere a segno ogni giorno e anche un arrivo in volata diventa un lavoraccio infinito per i gregari.
Il percorso del Tour de France 2017
A Longwy, terza tappa, l’arrivo è posto al termine di un chilometro e mezzo di salita abbastanza dura da stancare buona parte dei velocisti; il giorno dopo a Vittel il percorso è un toboga di strade, nel quale la pianura è solo una parvenza e i metri di dislivello che i corridori si troveranno nelle gambe saranno quasi tremila. Alla quinta tappa i Vogsi; alla settima c’è la Combe de Laisia-Les Molunes e un finale che ricorda quello di Asiago all’ultimo Giro d’Italia; all’ottava forse la frazione più dura almeno per pendenze: il Col de la Biche e il Grand Colombier sono erte lunghe e difficili, con il caldo estenuanti, il Mont du Chat un muro di quasi nove chilometri che non scende mai sotto il nove per cento di pendenza. La dodicesima tappa è una maratona pirenaica nella quale non c’è respiro negli ultimi cento chilometri: una salita dietro l’altra con il Port de Balès e il Peyresourde argini prima della corta ma verticale scalata finale che porta a Peyragudes. La tredicesima un’incognita dove può accadere di tutto: cento chilometri e tre salite in fila in quei Pirenei lontani da quelli mitici, ma che molto spesso hanno fatto più danni di Aubisque e Tourmalet, perché imprevedibili, perché fornaci, perché un collage di strade strette e desolate. Poi Rodez e Le Puy-en-Velay, due frazioni che sono uno strappo dietro l’altro; la tappa di Serre Chavalier con il Col de la Croix de Fer e il Galibier uno dietro l’altro, sempre sopra i duemila metri, prima della picchiata in discesa verso il traguardo. Infine l’arrivo in salita sull’Izoard, preceduto dal Vars, ossia le salite alpine più ricche di storia a pedali, luoghi che riportano alle traversate solitarie di Bottecchia e Bartali e Coppi. Si chiude a Marsiglia, a cronometro, prima del lungo trasferimento in aereo a Parigi per la passerella finale.
La nona tappa del Tour è una delle più impegnative di questa edizione
Un percorso stano e complesso, che lascia spazio all’imprevedibilità, completamente diverso da quello che in Francia erano abituati a vedere. Un percorso che prova a entrare nella modernità di tracciati sempre meno etichettabili e sempre più aperti a molteplici letture. Un Giro ma in suolo francese, con tutto quello che questo comporta: ossia strade più grandi, caldo più intenso, squadre più attrezzate. Perché è il Tour, la corsa più ricca al mondo e i capitani al loro fianco avranno il meglio del gregariato. Una corsa che può dire molto, ma che sembra un esperimento ibrido, un’imitazione non troppo riuscita. Il Giro è unico perché unico è il terreno nel quale si muove. Qualcosa di troppo diverso dalla Francia per poter essere replicata. Forse aveva davvero ragione Desgrange, il Tour “era perfetto” com’era e viene un po’ di malinconia a vederlo mutare.