Kalinic al Milan arriva direttamente dagli anni Cinquanta
La presunta modernità del nuovo attaccante di Montella non è altro che un ritorno a Reims, ai tempi nei quali giocava Kopa che diventando centravanti cambiò (un po') il calcio
Nikola Kalinic che lascia Firenze e raggiunge la Milano rossonera, quella senza o finale, il Milan; che lascia Stefano Pioli, che la Viola l'allena, per abbracciare Vincenzo Montella, che la Fiorentina l'allenava e che alla Fiorentina l'avrebbe voluto. Arrivò un anno in ritardo, pronto per l'èra Paulo Sousa, con l'Aeroplanino già volato altrove. Nikola Kalinic che è attaccante, numero nove, di maglia e di posizione, ma atipico, o così almeno lo descrivono i più; che segna il giusto, che si sbatte e si danna più di quello che si richiede a uno che di professione dovrebbe segnare dimorando nell'area di rigore; che quando il pallone lo hanno gli avversari torna indietro, si avvicina ai compagni e con loro difende e poi una volta ripresa la sfera cerca i colleghi, passa il pallone e si ributta lì dove dovrebbe stare, vicino a quei tre pali che vogliono dire gol; che è moderno, modernissimo, almeno per i commentatori di calcio, perché atipico, quasi l'atipicità ormai fosse diventata normalità. Nikola Kalinic che "avevo Tomislav Erceg, che era grande grosso ed esperto, e Niko Kranjcar, che era veloce e spettacolare ma di cristallo se affaticato, per cui ho detto a Nikola, sbattiti tu. Lui ha capito e lo ha fatto. E' un ragazzo dalla straordinaria intelligenza empirica", disse di lui Luka Bonačić, che lo allenò nel 2006 allo Hajduk Spalato, alla televisione croata.
Atipico eppure tipico come pochi. Perché Kalinic segna e questo è quanto e questo basta sopra ogni ragionevole dubbio: trentatré gol in due anni a Firenze sono un bottino buono e migliorabile soprattutto in una squadra che, almeno a vedere le prime partite e a leggere la rosa, potrebbe lottare per un posto in Champions League. Atipico eppure perfettamente in linea con quello che è il gioco del calcio ora e con qualche cambiamento e qualche rivoluzione dagli anni Cinquanta in poi. Da quando in Francia Albert Batteux si sedette sulla panchina dello Stade de Reims e si imbatté in un giocatore "secco, alacre, aspro, ma che con la palla ai piedi sapeva scrivere romanzi d'amore". Quel giocatore era Raymond Kopa, due gambe rubate alle miniere, perché quello era il destino di tutti i Kopaszewski da generazioni, ben prima della fuga dalla Polonia del nonno nel 1919 verso Nœux-les-Mines. Quel giocatore era Raymond Kopa e i romanzi li aveva iniziati a narrare sulla fascia, quella destra. Almeno sino al colpo di scena di Batteux. Perché piccolo, scattante, veloce altro non poteva essere che un'ala Kopa in quel calcio nel quale "i difensori difendevano, gli interni recuperavano i palloni, le mezzali lo portavano nella metà campo altrui e poi decidevano se allargarlo sulle fasce oppure farlo arrivare ai centravanti", scrisse Emilio De Martino nello Sport Illustrato nel 1955. Lo stesso anno nel quale Kopa venne accentrato da Batteux: numero nove, centravanti.
"Kopa era meraviglioso, un calciatore eccezionale dotato di un arte rara, quello del dribbling", scrisse Claude Quesniaux, giornalista dell'Equipe. Talmente meraviglioso che sull'ala non serviva. Meglio al centro, meglio il più vicino possibile alla porta, perché per attitudine e abitudine "Kopa scendeva, si affiancava ai mediani e a loro concedeva il suo aiuto". Atipico, forse, sicuramente non moderno, perché era lì che "Raymond pressava, aiutava, recuperava la sfera e subito si dimenticava di avere altri calciatori al suo fianco. Portava la palla affianco del piede e non la lasciava mai. L'avrebbe portata pure nello spogliatoio se gli fosse stato concesso", continuava Quesniaux. Kopa difendeva per avere la palla, poi se ne fregava di tutto. Le partite le vinceva da solo. Con lo Stade de Reims raggiunse la finale di Coppa dei Campioni. La perse contro il Real Madrid degli invincibili. E al Real degli invincibili si trasferì l'anno dopo. Per Santiago Bernabeu, il presidente dei Blancos, non c'erano alternative: "Il Real è la squadra migliore al mondo e acquista i giocatori migliori. Kopa non può giocare altrove". Alfredo Di Stefano gli fece eco: "Giocatori come Kopa non ne esistono. Non poteva non giocare se non nel Real". Kopa vestì la maglia delle Merengues e da lì cambiò. Di nuovo ala, ancora dribbling, ma a favor di squadra. Di Stefano era il centravanti e la mente: "Il Real è squadra, Kopa ne farà parte". Durò tre anni a Madrid, poi ritornò a Reims a essere Kopa e basta.
Albert Batteux cambiò il centravanti, lo rese atipico, rivelò Kopa. Montella non ha cambiato il centravanti e neppure il calcio, ma è uomo furbo, che conosce il calcio e sa che l'atipico nel calcio non è altro che impegno. E sa che Nikola Kalinic di questo in campo ne riversa in abbondanza.
Sconfitta in Eurolega
A Berlino l'Alba è nera per l'Emporio Armani
olive s3 e10