Roger Federer e Rafa Nadal (foto LaPresse)

Essere i numeri uno

Giorgia Mecca

Agli Us Open di tennis Nadal è primo e Federer favorito. Cosa c’è dietro all’immortalità dei campioni che non smettono di vincere

Il 5 settembre 1989, dopo aver perso i quarti di finale agli Us Open contro Zina Harrison, Chris Evert annunciò che quella sarebbe stata la sua ultima partita. In carriera, la tennista statunitense aveva vinto 154 tornei, 18 titoli del Grande Slam ed era stata numero uno al mondo per sette anni. Aveva qualche rimpianto: forse, disse, avrebbe potuto vincere di più; quel giorno però, con il cuore finalmente leggero e il suo sorriso stava per cancellare tutto ciò che il campo le aveva tolto: “E’ bello sapere che la mia felicità non dipende più da una partita di tennis”. Aveva ragione lei. E’ assurdo pensare di poter trovare gioia o soddisfazione dentro a pochi metri quadrati divisi da una rete. Per capirlo, basta osservare i giocatori durante gli incontri, tutti quei movimenti innaturali, le vene che vorrebbero scoppiare fuori dal corpo, le fronti marce di rughe e di sudore, i muscoli che soffrono, tre ore di bestemmie al vento e poi alla fine tutto viene deciso da una manciata di punti. Il tennis è uno sport ingrato, basta un piccolo miracolo o una distrazione per dimostrare quanto vali, ciò che sei davvero: un vincente o un perdente. La felicità non dipende da un campo da tennis. Adesso che finalmente lo aveva capito, alla soglia dei trentacinque anni, Chris Evert poteva finalmente andare in pace.

 

Ma che cosa dire della guerra? Lasciando perdere per un attimo la schiena a pezzi, il nodo che strozza la gola, Martina Navratilova che in tredici anni l’aveva battuta trentasette volte; lasciando perdere la gioventù bruciata, la noia e la frustrazione, la guerra era stata davvero così tremenda?

La prima volta che è stato numero uno Nadal aveva 22 anni.
Dopo gli infortuni nessuno credeva
di rivederlo al top, tranne lui

A 31 anni e due mesi Rafael Nadal è diventato il nuovo numero uno del mondo. La prima volta che ha raggiunto la vetta della classifica è stato il 18 agosto 2008, nove anni fa. Quell’anno il tennista spagnolo aveva vinto Montecarlo, Barcellona, Parigi, Wimbledon e l’oro alle Olimpiadi di Pechino, trentadue vittorie e nemmeno una sconfitta. Dentro a un campo da tennis sembrava un animale. Con tutto il rispetto e l’educazione di cui era capace, ogni volta che giocava un punto non cercava soltanto di vincerlo, no, il suo desiderio era quello di mettere i piedi sopra alla testa dell’avversario e non fargliela alzare finché il pubblico non avrebbe applaudito la fine del game, del set e del match. C’era riuscito con tutti, anche con Roger Federer che fino ad allora era stato il padrone del tennis per 237 settimane. Dal 2008 Nadal ha vinto undici tornei del Grande Slam, sei volte il Roland Garros. Ha assistito al ritiro dei vecchi nemici e all’esplosione di nuovi e nuovissimi talenti, in carriera ha vinto 855 partite e ne ha perse 173. Poi, nel 2014 improvvisamente Rafa Nadal è invecchiato, ed è invecchiato male. Sarebbe stato impossibile il contrario dopo tutti quei chilometri e quella rabbia sputati in mezzo al campo. Ha avuto infortuni al gomito, alle spalle, alle ginocchia, alla schiena, poi di nuovo alle ginocchia e infine al polso. Ha perso fiato, muscoli e classifica; le sue palline, che una volta schizzavano via, improvvisamente viaggiavano lente. Non ci si può sottrarre allo spettacolo del proprio corpo che si sgretola. Prima o poi se ne accorgono tutti, se ne accorge anche lui. “Non siamo eterni”, dice nel 2016 a Roma, dopo aver perso i quarti di finale contro Novak Djokovic. Qualche maligno decide che è il momento giusto per fargli notare che è da due anni che non raggiunge la finale di un torneo del Grande Slam; lui non risponde, non ha niente da dire. Lo scorso autunno, mentre Murray, Djokovic, Wawrinka e Raonic continuavano a giocare e a raccogliere punti in classifica, Roger Federer e Rafa Nadal si trovavano a Maiorca per l’inaugurazione dell’accademia di tennis dello spagnolo. Entrambi avevano chiuso la stagione prima del previsto, indossavano camicie eleganti e sembravano due uomini in pace. Parlavano del passato e non osavano immaginare nessun futuro. L’unica cosa certa, pensava Federer, era che sarebbe stato difficile incontrarsi di nuovo in una finale. “E’ bello sapere che la felicità non dipende da un campo da tennis”. Tutto il mondo intorno, le loro famiglie e, nel caso di Federer due coppie di gemelli, ne erano un’efficace dimostrazione. “Il problema del tennis, e dello sport in generale, è che è lisergico, esattamente come le droghe crea dipendenza”, dicono gli psichiatri. “Immaginate un giocatore di poker che sta vincendo migliaia e migliaia di euro al casinò. Può decidere quando vuole di alzarsi e portare via tutte le fiches che ha guadagnato. Ecco, provateci voi a costringerlo ad abbandonare la partita. Piuttosto si fa inchiodare per sempre alla sedia”. Perché i giocatori continuano a giocare? “Per l’emozione che provano dentro a quel tavolo verde e non riescono a provare da nessun’ altra parte”. Roger Federer e Rafa Nadal non sono eterni e non sono morti.

 

Un anno fa, mentre Murray e Djokovic giocavano, Rafa
e Roger inauguravano un'accademia di tennis. "È finita", pensavano tutti

Quello che è successo agli Australian Open di quest’anno (Federer e Nadal di nuovo contro nella finale di un Slam undici anni dopo la prima volta) è stato paragonato a “The Rumble in the Jungle”, la lotta nella giungla tra George Foreman e Mohammed Ali, una tragedia greca che finisce bene, un miracolo senza preghiere. Non era ancora finita. Dopo aver conquistato il diciottesimo titolo dello Slam a Melbourne, il tennista svizzero ha vinto Indian Wells, Miami, Halle e Wimbledon per l’ottava volta. Nadal ha vinto Montecarlo, Barcellona, Madrid e poi “La Decima” al Roland Garros, nessun tennista ha conquistato per così tante volte lo stesso torneo. Lunedì cominciano gli Us Open, e secondo le classifiche Atp lo spagnolo è il miglior tennista al mondo; Federer, in terza posizione, lo osserva da vicino, a soli 500 punti di distacco. “Nessuno vuole la pace, perché la guerra è stata bella”. Così ha scritto Emanuela Audisio nel suo libro “Il ventre di Maradona”. Andre Agassi di tutte le partite che ha giocato, ricorda solo due momenti: l’ingresso e l’uscita dal campo. L’unica cosa che poteva dire di ciò che era successo nel frattempo era che si era trattato di “un gran casino”. A fine carriera poteva confermarlo, la guerra era stata bellissima.

 

Ma dove la trovano i campioni la forza fisica e soprattutto mentale di continuare a provare e riprovare gli stessi colpi che colpiscono da una vita intera? Nessuno si diverte a trascorrere le proprie giornate a fare le ripetute, a guardarsi allo specchio mentre alza e abbassa pesi finché le braccia non cedono. Gli allenamenti dei tennisti sono noiosi, millimetrici, sfiancanti. Quante palline bisogna tirare dall’altra parte della rete per cercare di rimanere competitivi? Un miliardo? Forse non basta. Cosa deve ancora imparare da un campo da tennis un uomo di trent’anni?

“I campioni non ragionano così”. Ignazio Surra per molti anni è stato il mental coach di Silvia Farina, la tennista italiana che nel 2002 ha raggiunto l’undicesima posizione nella classifica mondiale. Adesso si occupa soprattutto di coaching per le grandi aziende ma continua a seguire i giocatori da vicino. “Quando un atleta compie trent’anni”, spiega Surra “è importante che si guardi allo specchio e rifletta su quanto talento gli è rimasto”. I giovani ti travolgono, hanno una forza che ti porta via. “Sa cosa fa Nadal quando gioca contro di loro e non riesce a uscire da uno scambio? Tira profondo al centro del campo e, magicamente, ai suoi avversari si attorcigliano le gambe”. La scienza e le tecnologie a disposizione dei professionisti tifano per la resistenza e l’allungamento delle carriere. Rispetto a un tempo, adesso gli atleti vengono seguiti con cura maniacale, mangiano e si allenano meglio. Senza contare che le superfici si sono uniformate, l’erba è diventata più lenta e la terra più veloce, per i tennisti è diventato tutto molto più facile. Tutto vero, ma questo non basta a spiegare ciò che è successo a Federer e a Nadal quest’anno. Mentre il loro sipario si stava abbassando, loro si sono chiesti che cosa potevano fare per diventare ancora più forti. Non bastava resistere, e nemmeno affidarsi alle ceneri del passato, bisognava migliorare. Brad Gilbert un giorno ha detto: “Quando incontro Rafa durante un torneo, lui sta sempre lavorando su qualcosa: il lancio della palla, l’impugnatura o qualcos’altro”. Si tratta di cambiamenti quasi impercettibili, questione di millimetri e di ostinazione. Nadal, che per tutta la sua carriera ha solo e soltanto ascoltato le parole di zio Tony, ha chiamato a far parte del suo staff Carlos Moya, suo amico ed ex numero uno al mondo; Federer continua ad affidarsi anima e corpo a Ivan Ljubicic e a Pierre Paganini. Lo svizzero ha migliorato il rovescio, lo spagnolo il servizio. Miliardi di palline. In alcuni momenti si sono sentiti stanchi, annoiati: hanno scritto e riscritto la storia dello sport almeno un paio di volte, i loro tendini sono squartati, prima o poi gliela faranno pagare, ma chi glielo fa fare di rimanere ancora lì? “L’emozione, solo quello li tiene in piedi”, ripete Surra “e poi un certo grado di incoscienza, tolleranza al rischio e soprattutto la curiosità nei confronti di ciò che potrebbe ancora accadere. La stessa curiosità che è mancata a Björn Borg quando, a soli ventisei anni, ha deciso di salutare il tennis e andare in pace”.

 

Chi glielo fa fare
di rimanere ancora lì? "L'emozione".
E la consapevolezza
che, dopo
avere gustato
la pace,
la guerra sia meglio

Dopo la finale dei duecento metri stile libero alle Olimpiadi di Rio dello scorso anno, Federica Pellegrini ha tirato tre pugni all’acqua maledicendola. Per tutta la gara aveva inseguito inutilmente le sue avversarie mancando il podio per un soffio, ventisei centesimi di secondo. “Sono morta”, ha detto ai microfoni uscendo dalla vasca. Subito dopo aver ripreso fiato, in un lungo post su Instagram ha descritto con precisione che cosa si prova quando cerchi il tuo nome sul tabellone dei risultati, ma il tuo nome ormai non è più scritto da nessuna parte. Per preparare le Olimpiadi, ogni giorno per un anno intero la nuotatrice italiana si è svegliata al mattino con la sensazione “di essere stata appena presa a pugni” tanta era la stanchezza. Ventisei centesimi di secondo. Federica ci aveva provato e non ci era riuscita. Le sue spalle erano larghe e stremate, il fiato corto, spezzato. Non aveva più niente da dimostrare, era stata la Divina e adesso non lo era più; succede in continuazione, la vita va avanti, lo sport anche. Federica Pellegrini ha un’araba fenice tatuata sul collo. Appena ha trovato la forza per ritornare in acqua, ha chiesto a se stessa e al suo allenatore: “Che cosa posso fare per migliorare?”. Il 26 luglio ai Mondiali di nuoto di Budapest è di nuovo davanti a tutti. Katie Ledecky, che l’anno prima l’aveva annichilita, rimane a guardare. Con la medaglia d’oro al collo annuncia che quelli sono stati gli ultimi 200 metri a stile libero della sua carriera. Continuerà a nuotare, ma in altre specialità: “Adesso posso dire di essere in pace”, dice sorridendo. E’ la prima e unica nuotatrice della storia ad avere vinto sette medaglie consecutive ai Mondiali.

 

Nei muscoli degli atleti c’è tutto ciò che sono: la forza d’inerzia, l’istinto, la capacità di adattarsi e di soffrire. La mente decide e il corpo resiste. Prima di cominciare gli allenamenti, la canoista italiana Josefa Idem ripeteva a se stessa: “Sono speciale”. Lo era davvero. Alle Olimpiadi di Sydney del 2000, durante la gara del K1 500 metri, a un certo punto, come lei stessa ha dichiarato in un’intervista rilasciata al programma Sfide, le urlava ogni fascia muscolare. Un dolore tremendo. Poi, stringendo i denti più forte che poteva ha pensato: “se sono sopravvissuta al parto, sopravviverò anche qui”. Ha continuato a remare, con i suoi trentotto anni sulle braccia e una volta arrivata al traguardo si è guardata prima a destra e poi a sinistra scorrendo che davanti a lei non c’era nessuno. Lo psicologo sportivo Giuseppe Vercelli l’ha seguita per anni, fino a Londra 2012, la sua ultima gara dopo 32 anni di carriera e Olimpiadi. “La resistenza non è nient’altro che la resistenza di un miglioramento continuo”, spiega Vercelli “ogni anno Josefa provava a fare qualcosa di diverso, ad apportare un piccolo cambiamento alla sua tecnica”. La ripetizione degli stessi gesti all’infinito farebbe impazzire chiunque non sia un robot, “Josefa però era capace di riempire questi gesti di significato. Questo è quello che fanno i campioni”. L’ex canoista il mese scorso si è laureata in Psicologia. Ciò che le interessa maggiormente è la transizione delle carriere, il momento in cui gli atleti appendono il passato al chiodo e ricominciano da capo.

 

Chi incontra Nadal durante un torneo
lo vede sempre lavorare su come migliorare. Cambiamenti impercettibili ma decisivi

“Sarebbe surreale”. Roger Federer ha risposto così a chi nei giorni scorsi gli ha chiesto se si sentiva il favorito per l’ultimo Slam della stagione. L’anno scorso ha guardato la finale del torneo nella sua casa di Basilea, pensando alle racchette e ai chiodi, ai sipari che calano sulle carriere, al suo fisico che dopo tutti quegli anni si era ribellato e chissà se sarebbe ritornato quello di un tempo. Che cosa poteva fare per migliorare? Per tutti i sei mesi che è rimasto fuori dal circuito, il campione svizzero non ha fatto altro che ripetere la stessa domanda. Cos’è che non aveva ancora imparato? Come si faceva a resistere alla noia, al dolore, al cuore che non batte, ai muscoli che chiedono pietà e rimanere per sempre inchiodati dentro a un campo, tirare un sospiro di sollievo e realizzare anche solo per un attimo che la propria felicità esiste lì dentro e da nessun’altra parte? Aveva vissuto la pace, preferiva la guerra.

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