O gloria o famiglia: le dure scelte dei campioni che non sanno se tornare a casa
Dwyane Wade in Nba saluta Chicago ed è diviso tra la lotta per il titolo a Cleveland e il ritorno a Miami dove vivono compagna e figli. Il dilemma degli ultimi anni di carriera è un trivio tra gloria, soldi e affetti
Doveva essere un biennio si è trasformato invece in una parentesi di un anno, una toccata e fuga in Illinois, più in infermeria che in campo, complice una frattura al gomito destro che ha cancellato la possibilità di giocare con continuità con la maglia della sua città natale, quella rossa dei Chicago Bulls che fu del suo grande idolo, Michael Jordan. Dwyane Wade ha rescisso ieri il contratto, ha rinunciato a otto dei ventitré milioni di dollari che avrebbe percepito in questa stagione pur di svincolarsi e poter giocare altrove – in Nba le squadre non possono vendere giocatori e guadagnare sulle cessioni, esiste solo uno scambio di contratti e se un cestista ha un ingaggio alto è difficile possa trovare un posto in un'altra squadra a causa del limite di spesa per gli stipendi –, per andare a vincere ancora. Perché a trentasei anni le occasioni di riconquistare l'anello sono poche e a Chicago le possibilità di farlo a breve sono pressoché nulle. E allora ecco il richiamo di LeBron James, una casacca da vestire a Cleveland, anche a costo di perdere gran parte dell'ingaggio, anche a costo di essere più comprimario che stella: "Essendo vicino ai 36 anni, mi è sembrato il momento giusto per competere per un titolo", ha detto al Chicago Tribune spiegando come il progetto di puntare sui giovani è giusto per una franchigia che non vince dai tempi di MJ e che "hanno bisogno di opportunità e tempo per fare errori, imparare e crescere: non hanno bisogno di un vecchio come me che rimanga qui in giro". Un buon modo per non passare da irrispettoso, soprattutto dopo aver promesso molto e mantenuto poco, anche se per colpe non sue.
Ritornare al fianco di LeBron come ai tempi dei Miami Heat, quando con Chris Bosh componevano i Big Three, il trio migliore del campionato, quello della rivoluzione del sistema Nba – mai una franchigia mise assieme tre top player del genere – un mix di forza, velocità e agilità che regalò tre finali e due titoli in quattro anni. James c'aveva provato anche l'anno scorso a portare Wade a Cleveland, squadra dove gioca e vince, ma Flash decise di realizzare il sogno della sua vita, giocare con la casacca di Jordan.
James ci riprova ancora e sembra aver colto nel segno: Wade che rescinde e diventa free agent, che può scegliere dove andare. Sembra fatta per la reunion. O forse no. Perché se il richiamo di gloria e vittorie è forte, nella vita di un atleta c'è anche altro.
Dwyane Wade è nato a Chicago e a Chicago è cresciuto, ma è a Miami che ha vissuto, lì ha moglie e figli, lì una gran parte della sua vita. A giugno del 2016 aveva salutato i tifosi con un lettera nella quale li ringraziava ed esprimeva il suo profondo legame con la città sottolineando però come il ritorno in Illinois fosse una tappa necessaria della sua carriera, almeno per quanto riguardava gli affetti. Scrisse: "Non ho mai dimenticato da dove vengo e ringrazio di avere un’opportunità di giocare per la squadra che per prima ha alimentato il mio amore per il gioco. Molti membri della mia famiglia vivono a Chicago e sono eccitato di tornare a casa in una città che amo".
L'inseguimento delle origini è però dinamica strana, che pone un problema enorme, quello che Francis Scott Fitzgerald sintetizzò in poche parole come "l'inganno di riuscire a chiamare qualcosa casa". Perché se è vero che Wade viene da Chicago è a Miami che prima è diventato giocatore in Nba, poi star, infine padre. Lì i suoi figli vanno a scuola, vive la sua compagna e non è lo stesso stare affianco alla famiglia che ti ha generato senza quella che ti sei costruito. E allora gli Heat, che quest'anno difficilmente potranno qualificarsi anche solo per i playoff, stanno iniziando a sperare di poter riabbracciare il figliol prodigo, colui che partì per giocare nella sua città capendo solo ritornandoci che quello non era più il suo posto. E allora il sorriso di coach Pat Riley, dopo il "valuteremo qualsiasi possibilità", diventa se non una promessa, quanto meno un indizio che le carte per un ritorno sono già sul tavolo e che ora sta solo a Wade decidere se scoprirle, accettare o meno il richiamo della famiglia. Perché per un campione che ha vinto tanto e guadagnato di più, che ha rinunciato a otto milioni di dollari per un addio, il contratto di 4,5 milioni di Miami, il doppio di quanto guadagnerebbe a Cleveland, non rappresenterebbe il motivo scatenante della scelta della via da percorrere. Da un lato la gloria personale, dall'altra la quiete familiare. In mezzo una scelta che sarà forse l'ultima della sua vita sportiva, quella che ne determinerà, probabilmente, il ricordo futuro. Romantico o vincente, spalla o primattore. Perché è "l'ultima immagine di una rappresentazione è quella che ci si porterà con sé, a meno che questa da ricordo non diventi storia", scrisse nel 1980 Pierre Chany a proposito di Raymond Martin dopo il suo primo podio alla Grande Boucle per quello che fu uno dei talenti mai sbocciati del ciclismo transalpino.
La scelta di lasciare senza riavvicinarsi a casa è però impresa ardua, davanti alla quale in molti scricchiolano e cadono. Successe a Roberto Baggio che preferì la tranquillità di Brescia, la vicinanza a Caldogno, alle lusinghe giapponesi e d'oltreoceano; successe a Juan Sebastián Verón che dall'Inter ritornò all'Estudiantes invece di prendere la strada di Parigi o quella di Madrid, sponda Atletico; successe a Carlos Tevez che salutò la Juventus per tornarsene al suo amato Boca Junior, salvo poi tradire subito i suoi intenti romantici davanti a un ricchissimo assegno cinese. Succede ancora e a giorni alterni ad Antonio Cassano, incapace di distaccarsi da moglie e figli e da quella Liguria che è diventata casa sua.