Così Bonucci è diventato il capro espiatorio di un Milan senz'anima
Il difensore è stato il colpo del mercato rossonero ma il suo inizio di stagione, culminato con l'espulsione nella gara contro il Genoa, è da incubo. Così come quello di un gruppo che fatica a diventare squadra
Una volta gli allenatori avevano due facili vie di fuga per giustificare i propri fallimenti: gli arbitri e la televisione. I primi quali possibili protagonisti di ogni nefandezza, la seconda come mezzo in grado di indirizzare i giudizi. Il Var ha creato la tempesta perfetta, unendo i primi ai secondi. Ovvero: decisioni sbagliate supportate in tempo reale da un medium nemico. Chiedere a Vincenzo Montella, per esempio. Dopo l'ultima dimenticabile prestazione del Milan (contro il Genoa) se l'è presa per appunto con il Var: “Questo non è campo, è tv. Io mi gioco la carriera su partite così”. Motivo del contendere, l'espulsione di Leonardo Bonucci, sorpreso in area ad alzare un gomito galeotto a danni di Rosi. Una sanzione che, in altri tempi, sarebbe stata erogata in settimana con quella che si chiamava prova tv. Poteva capitare che un episodio sfuggisse agli occhi dell'arbitro: la Procura federale interveniva a bocce ferme e segnalava l'episodio al giudice sportivo, che sanzionava in base alle immagini in suo possesso. Oggi non è più così. Il Var permette di punire in tempo reale i colpevoli, realizzando nel pallone il sogno di ogni giustizialista. In passato Bonucci l'avrebbe sfangata sul campo per subire (forse) una punizione successiva. Invece la nuova tecnologia sta cambiando il modo di muoversi dei calciatori, difficile nascondere una scorrettezza o un fallo. Una condizione che i più accorti hanno già capito come gestire, evitando gesti inutili e controproducenti. Alcuni no, e il difensore rossonero è tra questi.
E l'espulsione contro il Genoa è stato il coronamento di una prima parte di stagione che nessuna avrebbe immaginato così negativa. A cominciare da Bonucci stesso. In estate il passaggio dalla Juventus al Milan era stato il colpo del mercato. Perché non sono merce comune le trattative dirette tra i due club, perché il trasferimento era costato 42 milioni. Un addio che, raccontano gli esperti di cose juventine, aveva fatto bene a entrambi: al giocatore e alla società. Al giocatore perché qualcosa si era rotto, con lo spogliatoio e con Max Allegri (memorabile il litigio in campo nella partita con il Palermo, seguito dall'esclusione del difensore da una gara in Champions League). Alla società, perché Bonucci era diventato improvvisamente un elemento di rottura e non di unione, dopo aver contribuito alla conquista di sei scudetti consecutivi. E 42 milioni non sono argomento disprezzabile. Al Milan era stato presentato come l'acquisto che avrebbe cambiato i destini del club: per curriculum vitae, per impegno economico, per carisma sul campo. Al punto di impostare il gioco sulle caratteristiche del nuovo arrivato e di sfilare la fascia da capitano dal braccio di Montolivo per affidarla proprio a Bonucci. Il tutto per la perplessità di Silvio Berlusconi, non più proprietario ma ancora possessore della tessera numero uno di tifoso.
I fatti hanno smontato in poco tempo tutte le aspettative. Invece di essere l'unto del Signore, pronto a trasformare il Milan nei nuovi invincibili, Bonucci ha assunto il ruolo di capro espiatorio in un gruppo che fatica assai a diventare squadra. Il difensore di oggi ricorda quello balbettante pre Juventus, non quello implacabile applaudito sotto Conte (soprattutto) e Allegri. I suoi urli di guerra sono diventati materia di scherno sui social, Instagram è il luogo preferito dei fotomontaggi che immortalano gli interventi sballati, il gomito in faccia a Rosi è stata la summa di ogni negatività. Commuove il tentativo di difesa di Montella (“Stava prendendo posizione”). Resta la sostanza di un Milan ancora senza anima. Quella che dovevano infondergli il suo allenatore e il suo capitano.