Tutto a posto, c'è il colpevole: Ventura esonerato dalla Nazionale
Il ct paga per tutti. Ma il vero problema dell'Italia calcistica non sono né l'allenatore, né Tavecchio, è che manca il talento
Gian Piero Ventura non è più l'allenatore della Nazionale. Il consiglio federale della Federcalcio si conclude con l'esito più prevedibile, quello che mette sulla graticola il commissario tecnico che ha guidato l'Italia alla storica non qualificazione alla Coppa del Mondo che si terrà in Russia la prossima estate. Paga Ventura e tutto è a posto. Carlo Tavecchio pensa al futuro, tra gli sguardi contriti degli altri partecipanti alla riunione e il loro silenzio. Al prossimo consiglio federale, spiega il suo vice Cosimo Sibilia, chiederà un “voto di fiducia” (come il più classico dei presidenti del Consiglio che spera, in questo modo, di salvarsi la poltrona). Se ne lamenta Damiano Tommasi, presidente dell'Associazione Italiana Calciatori: "Volevo si ripartisse da zero, era l'unica cosa che mi interessava. Il Presidente Federale ha detto che non si dimetterà, mentre gli altri non hanno preso alcuna posizione. Ritengo sia complicato ripartire con queste premesse".
Ventura ha sbagliato ed è giusto che lasci la guida tecnica della Nazionale. Sarebbe sbagliato, però, dire che ha sbagliato solo lui. Figc, Lega Calcio e i tutti i vertici del calcio italiano non sono esenti da errori e da strafalcioni. Eppure rimangono al loro posto, con l'idea che si può ripartire, perché ripartire si deve. Un'Italia fuori dai Mondiali sembrava impossibile, eppure è successo. Una Nazionale che ha vinto quattro Coppe del Mondo non può stare a casa nella rassegna più importante, eppure è accaduto. Ed è accaduto perché di Mazzola e di Rivera, di Baggio e Del Piero, di Maldini e di Baresi, ma anche solo di Di Livio e di Benetti non ce ne sono più. E potrebbero non essercene per un po'. Servono riforme e rivoluzioni? Probabilmente no. Non servono perché in Italia non ce ne sono mai state, neppure nel 1958, dopo l'eliminazione all'ultimo turno di qualificazione alla Coppa Rimet. Il ct di allora, Alfredo Foni, non si dimise e non venne cacciato, rimase fino alla fine del suo contratto e poi venne sostituito da Gipo Viani. Polemiche ce ne furono, ma nessuna rivoluzione fu fatta. L'Italia continuò a giocare male, a non fare risultati e si arrivò dieci anni dopo all'eliminazione con la Corea del Nord. Lì l'idea geniale fu chiudere le frontiere, cosa che piace molto anche ai populisti di oggi. La vittoria del Campionato europeo del 1968 non fu però merito di questa trovata, ma di una generazione di calciatori straordinari allenata da un tecnico capace e abile nel gestire le grandi personalità dello spogliatoio: Ferruccio Valcareggi.
La controprova esiste: dopo le vittorie europee delle milanesi (il Milan sollevò la Coppa Campioni nel '63, l'Inter nel '64 e nel '65) nessuna italiana riuscì a trionfare in Europa, ad eccezione del colpo di coda del grande Milan di Nereo Rocco nel 1969.
Chiudere le frontiere non serve, come non serve prendersela con Tavecchio. Il capo della Federcalcio ha le sue lacune, non ha idee innovative, non è riuscito a invertire la rotta di un movimento che è in difficoltà da diversi anni, forse ancor prima della vittoria del Mondiale nel 2006. Eppure non è sua la colpa, come non è giusto che sia Ventura a pagare per tutti. L'idea che l'Italia debba partecipare quasi per diritto divino alla Coppa del Mondo è sciocca. L'idea che l'Italia non possa non qualificarci è il motivo principale che ci ha portato alla non qualificazione ed è l'evidenza di una dinamica che colpisce l'italiano calciofilo: quello di sopravvalutare il materiale umano che la nostra Nazionale ha a disposizione.
In Italia non ci sono campioni, solo qualche buon giocatore. Le cifre del mercato parlano chiaro: dove sono i colpi milionari che portano il tricolore sulle spalle? Nessuno. Tavecchio scegliendo Ventura scelse un tecnico capace, per quello che aveva dimostrato, a fare gruppo: l'evidenza della consapevolezza che serviva plasmare una creatura senza grandi individualità, il timbro che certificava che solo con l'unione di tutti si poteva superare la mancanza di genialità dei singoli.
In Italia non ci sono campioni e ciclicamente è sempre successo questo. Dopo i fasti del Ventennio fascista, dei Meazza e dei Ferrari, della nazionale infarcita di oriundi, è arrivato quell'undici fantastico che fu il Grande Torino. Poi più nulla per oltre vent'anni. Arrivarono i Rivera e i Mazzola, i Riva e i Boninsegna. Una nuova crisi. Gli anni Ottanta portarono una Coppa del Mondo, gli anni Novanta grandi talenti e pochi allori nazionali (altra storia fu per le squadre di club), gli anni Duemila i rimasugli del decennio precedente e alcune eccezioni – Pirlo, Totti, Cannavaro, Nesta, Buffon, Vieri – che hanno tirato la carretta ben oltre ogni rosea aspettativa.
Ora c'è la nuova risacca. E paga per tutti Ventura.