Milano, 13 novembre 2017: sconfitti all’andata dello spareggio con la Svezia, gli Azzurri di Gian Piero Ventura non si qualificano per la fase finale del Mondiale di calcio in Russia

La crisi dello sport nazionale

Il calcio è cambiato e noi siamo rimasti a guardare

Stefano Cingolani

Stadi vecchi e vuoti, eccessiva dipendenza dalla tv, Serie A con i conti da anni in rosso, resistenze ai capitali stranieri. Perché l’Italia, indietro in Europa, è arrivata in ritardo anche all’appuntamento con i Mondiali

Albert Camus, portiere di talento nonostante la tubercolosi, diceva che il calcio gli aveva insegnato una cosa fondamentale: “La palla non arriva mai dove la si aspetta”.

 

Il football è una metafora, lo annunciano i telecronisti sportivi e lo ripetono i tifosi che ancora resistono sugli spalti. Ma lo dicevano anche i filosofi. Per alcuni, è addirittura la metafora per eccellenza. Metafora della vita secondo Jean-Paul Sartre, della guerra condotta con altri mezzi secondo Pascal Boniface, teorico della geopolitica, o della poesia secondo Pier Paolo Pasolini, calciatore dilettante. Diventato elemento costituivo anche delle relazioni diplomatiche, meccanismo di produzione e riproduzione del capitale mondiale, quel gioco rispecchia le trasformazioni nel costume, nel comportamento individuale e collettivo, nella economia intesa come scheletro portante della società. Pochi paesi come l’Italia sono tanto devoti a questa rappresentazione del nostro tempo e in pochi paesi come l’Italia può essere raccontata come immagine dei demoni dai quali è attraversata. Anche in questo caso prevale la retorica del declino, la voglia di chiudere le frontiere (anche se gli stranieri sono il 54,5 per cento dei giocatori scesi in campo in serie A, meno dell’Inghilterra e della Germania), la propaganda contro la finanza e la globalizzazione. Mentre la realtà è del tutto opposta: il calcio italiano è arrivato in ritardo e impreparato all’appuntamento con il mondo nuovo, proprio come è accaduto con l’economia, con la politica, con le istituzioni statali.

 

Prevale la retorica del declino, la voglia di chiudere le frontiere, anche se gli stranieri in serie A sono meno che in Inghilterra e Germania

Non c’è solo la Nazionale, al contrario essa è il punto terminale dell’intero sistema che ora tutti vogliono riformare. A parole. Nei fatti le strutture di vertice si chiudono a riccio. Si sente parlare di vivai dove far crescere i campioncini di domani, di modello francese o tedesco, di “università del calcio”, come quella di Clairefontaine non lontano da Versailles, la fabbrica di talenti che tanto ha contribuito al successo del football transalpino, ma dove un ragazzone come Gigio Donnarumma troverebbe posto solo dopo aver superato gli esami con profitto. Pochi ricordano, inoltre, che una ragione del successo, in Francia come in Germania, è stata l’aver spalancato le porte ai figli degli immigrati.

 

L’Italia, invece, vive sui tempi andati, i tempi in cui dettava legge l’impresario. A prima vista, i fatti sembrano dar ragione ai nostalgici. Nell’era dei vecchi patron la Nazionale vinceva i mondiali e le squadre di club erano protagoniste di primo piano nelle coppe internazionali. Senza guardare troppo indietro, dal 1983 al 1998 hanno portato a casa sei titoli e cinque finali nella Coppa dei campioni, nel 1990 sono state vinte da squadre italiane le tre coppe in palio in Europa. Poi, a cavallo del nuovo secolo, Spagna e Inghilterra hanno sostituito l’Italia come potenze calcistiche europee insieme alla corazzata tedesca e alla Francia, ultima arrivata, ma capace di saltare molte tappe. Il campionato, intanto, è stato guastato da doping, falsi passaporti, violenze dei tifosi. Mentre i conti sono finiti quasi ovunque allo sbando. I vecchi stadi, in mano agli ultras, si sono svuotati e i nuovi sono stati bloccati da lacci e lacciuoli ideologici che s’intrecciano con interessi spesso oscuri, come nel caso della Roma.

 

Dunque, perché Silvio Berlusconi non torna al Milan così come è tornato in politica? Quando c’era lui… sospirano i tifosi rossoneri. E quando all’Inter c’erano i Moratti con Helenio Herrera negli anni Sessanta o con Mourinho in tempi più recenti. La famiglia Agnelli ha mantenuto saldamente in mano la Juventus anche adesso che è diventata davvero multinazionale. Luigi De Laurentiis con il Napoli o Urbano Cairo con il Torino sono per molti versi reincarnazioni della figura di capocomico (in senso storico sia chiaro) che tanto bene si applica allo spettacolo, ai mass media e allo sport, sulle orme di Andrea Rizzoli patron del Milan fino al 1963. E Diego Della Valle con la Fiorentina o Giorgio Squinzi con il Sassuolo sono a loro volta epigoni dell’industriale che sceglie lo stadio per passione, ma anche come vetrina delle altre sue vetrine. In fondo, gli impresari non se ne sono mai andati. E proprio questo è il problema.

 

Anche il calcio come l’industria, come la scuola, come la cultura, come tutta la società italiana ha capito troppo tardi che cosa è accaduto nel mondo durante questo primo scorcio del nuovo secolo e sta ancora faticando a prenderne atto. Il football vive questa trasformazione a modo suo, con stile sportivo-militaresco, ma non è affatto una eccezione.

 

“Nelle ultime tre stagioni i club della Premier League hanno generato utili operativi pari a 1,6 miliardi di sterline, più di quanto hanno accumulato in tutti i sedici anni precedenti”, spiega Dan Jones che ha curato il rapporto annuale per il 2017 della Deloitte britannica. La società di consulenza studia da 26 anni i cinque maggiori campionati di football, i big five, in Inghilterra, Germania, Spagna, Italia, Francia (l’ordine è rigorosamente costruito in rapporto al fatturato) e ha accumulato una esperienza particolare. I diritti televisivi sono ovunque la fonte principale di reddito, tuttavia esiste una disparità notevole tra paesi. Su 4,8 miliardi di fatturato complessivo della Premier League nel 2016, 2,577 miliardi vengono dalle tv, il resto è suddiviso tra sponsor, biglietti e merchandising. La Germania e la Spagna hanno una struttura dei bilanci sostanzialmente simile a quella inglese. La Francia prende meno della metà dai diritti televisivi. 

 

In Italia, con un giro d’affari di 2,4 miliardi della serie A (su 3,7 miliardi in totale, compresa la Nazionale), i biglietti danno pochissimo (meno del 10 per cento) e anche gli sponsor si sono ridimensionati in questi anni. Dunque, la televisione è largamente dominante e può fare il bello e cattivo tempo anche nella organizzazione del campionato o nell’influenzare le nomine ai vertici delle associazioni calcistiche.

 

Il mercato dei diritti è sempre più internazionale e si sta trasformando rapidamente. Il ruolo principale spetta alla svizzera Infront acquistata da Dalian Wanda, il colosso cinese dell’intrattenimento. Ora vorrebbe trasformarsi in una sorta di Netflix dello sport a cominciare dal calcio, dunque, ne vedremo ancora delle belle. Tuttavia solo il calcio italiano è rimasto tanto dipendente da una sola fonte di reddito. E proprio questo rappresenta il suo punto debole sul terreno economico. Il football club, diventato ovunque sempre più una impresa gestita con criteri manageriali, in Italia resta un’azienda personale che, a differenza da un tempo, non vive con i quattrini del padrone, ma della televisione.

 

Non c'è solo la Nazionale, al contrario essa è il punto terminale dell'intero sistema che ora tutti vogliono riformare. A parole

Deloitte scrive che difficilmente i redditi del campionato miglioreranno e sottolinea che il fatturato delle squadre di calcio è determinato quasi esclusivamente dagli stipendi e dai premi per i calciatori: tra il 70 e il 75 per cento contro una media europea del 57 per cento con l’Inghilterra ancora superiore a quota 60. La Germania, invece, è riuscita a scendere al 49 per cento non perché siano diminuiti gli stipendi, ma perché sono aumentati gli altri redditi. Sia la struttura dei costi, sia la composizione del fatturato spiegano perché i club italiani se la cavano molto peggio dei loro competitori e sono destinati a bilanci in rosso. Dal 2011 in poi, calcola Deloitte, la serie A nel suo complesso ha sempre chiuso in rosso; nel 2016, stima Calcio Finanza, le venti squadre di serie A hanno perso 251 milioni.

 

La Juventus è l’unico club che sia riuscito a organizzarsi sul modello europeo. E lo stadio di proprietà è stato propedeutico. Oggi il club torinese è il solo a stare nei primi dieci sui 38 analizzati ogni anno dalla olandese Kpmg, una delle quattro grandi società mondiali di revisione dei bilanci, diretta concorrente di Deloitte oltre che di Price Waterhouse e Ernst & Young. “Il football è una industria che nel suo insieme è sempre cresciuta nonostante la crisi”, spiega Andrea Sartori che cura il rapporto. L’anno scorso i 32 principali club hanno totalizzato quasi 30 miliardi di euro con un aumento del 14 per cento. Tutte le squadre sono migliorate tranne l’Ajax, la Lazio e l’Olympique Marsiglia. Il Portogallo ha visto una clamorosa caduta (-28 per cento) mentre il vero fenomeno è la Turchia con un aumento del 97 per cento, anche grazie al Galatasaray, al Fenerbahçe e al Besiktas.

 

Solo sei società italiane hanno chiuso in attivo il bilancio 2016: Juventus, Torino, Palermo, Carpi, Chievo, Empoli. Le perdite più pesanti gravano sul Milan e sull’Inter, seguite da Bologna, Udinese, Roma e Lazio, mentre il Napoli da due anni non riesce a far quadrare i conti dopo otto anni in attivo, ma sono anche gli anni nei quali ottiene i migliori risultati. Aurelio De Laurentiis acquista la squadra nel 2004 dopo il fallimento e la retrocessione in C1. Torna in serie A nel 2007, arriva secondo l’anno scorso, quest’anno è candidato a vincere lo scudetto. La gestione economica ha generato, in dodici anni, circa 40 milioni (39,4 per la precisione) come risultato netto aggregato. Utili mai distribuiti ma ancora presenti nei conti della società sotto forma di patrimonio netto (56 milioni) per essere utilizzati quando serviranno per coprire eventuali future perdite o per sostenere investimenti sulle strutture. Sul sito il Napolista, Vincenzo Imperatore, dirigente bancario trasformatosi in nemesi dei banksters con i suoi libri editi da Chiarelettere, ha esaminato tutti i bilanci e ne ha ricavato che la famiglia De Laurentiis ha versato al Napoli 47 milioni come capitale di rischio e altri 4 come prestiti. Totale 51 milioni, 30 dei quali rimborsati a Unicredit e 20 recuperati sotto forma di compensi. Insomma, la squadra non sembra un buon affare dal punto di vista puramente imprenditoriale. Dov’è il vantaggio? Il produttore è diventato un personaggio pubblico con la squadra di calcio più che con i suoi film anche se da questi ultimi guadagna e dal Napoli no.

 

L'industriale che sceglie lo stadio per passione e come vetrina. Gli impresari non se ne sono mai andati. E questo è il problema

Si potrebbe applicare al football quel che disse Bruno Visentini, allora presidente della Olivetti, in polemica contro le public company da lui definite “imprese di nessuno” e contrapposte a quelle nelle quali il patron svolge la sua “funzione virile”. E tuttavia anche la Olivetti, dove questa funzione virile è stata esercitata eccome da Carlo De Benedetti, dimostra che il padron delle ferriere “faccio tutto mi” incontra i suoi limiti nel momento in cui vuole compiere il salto verso una dimensione multinazionale. L’esempio più eclatante viene da Silvio Berlusconi, il primo a intuire che il calcio è intrattenimento a ciclo integrale: è stato un precursore, ma non è andato fino in fondo perché alla fine anche lui non è uscito dal paradigma della gestione familiare giunta al culmine con l’immissione infelice della figlia Barbara. La stessa Juventus non sfuggiva allo schema tradizionale finché gli eredi Agnelli non hanno cambiato marcia, trasformando una squadra di famiglia in una impresa a tutto tondo. Il prossimo passaggio non può che essere l’apertura del capitale a investitori istituzionali e una gestione manageriale.

 

Nella classifica delle squadre che valgono di più stilata dal CIES Football Observatory, la Juventus è al decimo posto, primo il Manchester City. Ma se prendiamo i marchi con maggior valore, nessuna squadra italiana è tra le prime dieci. Nelle prime trenta posizioni si trovano la Juventus (stabile all’undicesimo posto), il Milan al ventesimo, l’Inter al 28esimo e la Roma al 30esimo. Inter e Milan hanno perso rispettivamente venti e quattordici posizioni. Altre squadre di una certa importanza, come Napoli, Fiorentina e Lazio, sono molto lontane: il Napoli è 37esimo, Lazio e Fiorentina non rientrano nemmeno nelle prime cinquanta posizioni. Il calcio italiano, invece, non parla inglese. Il Manchester City è diventato un brand globale tanto che ha raggiunto un accordo con Amazon Prime Video per una serie che porta gli spettatori dietro le quinte durante la stagione 2017/18, seguendo il club passo dopo passo e offrendo ai tifosi una visione dei lavori quotidiani della City Football Academy e delle vite di Pep Guardiola e dei suoi giocatori. Il rilascio online è previsto per il 2018 in più di duecento paesi. Questa è la nuova dimensione dello spettacolo sportivo. Dopo il matrimonio con la televisione che ruota attorno ai diritti di trasmissione delle partite, arriva il fidanzamento con internet che promette di spiazzare (secondo alcuni distruggere in men che non si dica) la tv a pagamento.

 

La svolta è cominciata in realtà con Jean-Marie Faustin Godefroid “João” de Havelange, il brasiliano di nobili origini, diventato presidente della Fifa, la federazione internazionale. Nel 1974 strinse un accordo con la Adidas e la Coca Cola per sponsorizzare gli eventi calcistici di primo piano. Un flusso mai visto di denaro cominciò a scorrere lungo le vene del football mondiale. E ancora di più ne arrivò negli anni Novanta attraverso l’esclusiva venduta alle televisioni a pagamento. Nel 1987 i diritti europei per le tre successive coppe del mondo ammontavano a 400 milioni di dollari, nel 1998 erano arrivati già a 2,2 miliardi, una progressione geometrica diventata una spirale iperbolica. Con i bigliettoni verdi fioccarono anche le accuse di corruzione che misero Havelange in conflitto con Pelé, il più grande calciatore del secondo dopoguerra diventato proprietario di una tv e che poi sarà anche ministro dello Sport in Brasile. Potentissimo, corteggiato dalle multinazionali, davanti a lui si prostravano governi, dirigenti sportivi, campioni di tutti i paesi. Al timone fino al 2006, alla bella età di 90 anni, aveva allevato lo svizzero Sep Blatter e riuscì a imporlo come successore, riservando per se stesso il tiolo di presidente onorario. Tira e molla, a forza di inchieste giornalistiche e accuse degli avversari, venne fuori l’intreccio perverso tra i vertici della Fifa e la International Sports and Leisure, la società fondata per canalizzare le sponsorizzazioni. Si era creato un triangolo diabolico tra Dassler, il patron della Adidas, Havelange e Juan Antonio Samaranch, potente presidente del Comitato olimpico internazionale, che negli anni produsse la magia di trasformare lo sport in grande spettacolo globale in vero e proprio instrumentum regni e non solo nei paesi in via di sviluppo, in Russia o in Cina, ma anche (talvolta ancor di più) nell’edonistico occidente.

 

Sia la struttura dei costi, sia la composizione del fatturato spiegano perché i club italiani sono destinati a bilanci in rosso

La gestione Blatter che avrebbe dovuto fare chiarezza se non proprio pulizia, ha seguito invece le stesse orme. La sua èra finisce sepolta da “corruzione e abuso”, questa l’accusa che bolla sia Blatter sia Michel Platini, l’ex calciatore francese che lo ha sfidato per vent’anni, trascinati entrambi nel gorgo delle mazzette da decine di milioni di franchi svizzeri. Condannati, squalificati per otto anni, alla Fifa va Gianni Infantino, un italo-svizzero già stretto collaboratore di Platini che esordisce anche lui all’insegna delle mani pulite, della correttezza sportiva, del rigore. In realtà è stata la grande crisi economica ad aver acceso il semaforo rosso sulle follie finanziarie, introducendo anche nel calcio come nell’economia in genere due criteri marziani per il paese dei balocchi sportivi: il vincolo di bilancio e la riduzione dei debiti.

  

La nuova frontiera si chiama fair play finanziario e uno dei padri è un economista italiano, Umberto Lago, vicentino, 52 anni, professore all’Università di Bologna. Per otto anni ha valutato le inadempienze dei club e dall’aprile 2014 al settembre 2015, responsabile ad interim della camera investigativa, ha indirizzato i patteggiamenti di Psg, City, Inter e Roma. Ha chiuso da vicepresidente, la primavera scorsa, e considera un successo il lavoro compiuto nonostante le follie del calcio mercato che hanno portato il brasiliano Neymar al Paris St. Germain per 220 milioni di euro. “La perdita aggregata dei club, nel 2010, era di 1,6 miliardi di euro e nel 2015-16 di 300 milioni. Scherzando, ci dicevamo che senza la serie A il bilancio sarebbe in pari”. Quanto al caso Neymar, “la Uefa valuta l’impatto economico. Supponiamo un’uscita di 230 milioni e l’entrata di un asset da 230 milioni, che grava sul bilancio per 110 milioni a stagione tra clausola e stipendio. Non è di per sé un male, se il club genera 110 milioni di nuovi ricavi. Il Psg arriva da due bilanci in utile: la procedura d’infrazione scatterà solo se, conteggiati i profitti precedenti, il deficit andrà oltre i 30 milioni”. Lago mette in guardia da due forze di per sé positive, ma che possono diventare pericolose: la concentrazione in pochi super club e la finanziarizzazione spinta: “In economia, quando un settore raggiunge la maturità, ci sono fusioni e concentrazioni che aumentano l’efficienza. Nel calcio i club minori vengono emarginati e perdono tifosi. Uefa e Fifa devono regolare il fenomeno. Se ammazzo la concorrenza, a lungo termine mi faccio un danno”.

 

Un altro economista italiano che ha un ruolo importante sia nel fair play sia come consulente della Uefa è Donato Masciandaro, che alla Bocconi insegna Politica monetaria e sul Sole 24 Ore scrive dotti articoli sulla Bce. Da anni batte su un chiodo fondamentale: il connubio tra controllori e controllati. “In Italia il primo regolamentatore è la Figc, la Federazione italiana gioco calcio, nel cui assetto di governo giocano un ruolo fondamentale i club – spiega il professore – Perché stupirsi allora degli episodi sistematici di squilibrio economico-finanziario, di conflitti d’interesse, di illegalità vera e propria? La regolamentazione prigioniera degli interessi dei regolati può essere un vero cancro per l’industria, per il calcio significa rovinare la qualità del prodotto e le potenzialità del suo mercato”.

 

Dal 2011 la serie A nel suo complesso ha sempre chiuso in rosso. Nel 2016 le venti squadre hanno perso 251 milioni

Il governo del sistema, dunque, è un passaggio fondamentale per capire il ritardo rispetto agli altri grandi del football. Immagine fedele quanto deformata della modestia calcistica è Carlo Tavecchio, un ex bancario democristiano che dalla Polisportiva di Lodi era sbarcato nella Lega dilettanti; nel 2014, dopo le dimissioni di Giancarlo Abete, diventa il big boss del calcio professionistico sostenuto da un blocco di potere conservatore convinto di nominare un re travicello. Ha evocato l’apocalisse in caso di esclusione dai Mondiali, demoralizzando sia i calciatori sia l’allenatore Gian Piero Ventura, uno che non ha mai portato una squadra ai vertici nemmeno nel campionato italiano. Poi, quando Armageddon è arrivato, Tavecchio s’è abbarbicato alla poltrona finché ha potuto.

 

La crisi è sinonimo di trasformazione, ma guai a credere che il cambiamento arrivi dall’esterno. Tante illusioni erano state riposte su Calciopoli che ha coinvolto soprattutto Juventus, Inter, Fiorentina, Milan, Lazio e ha provocato le dimissioni in massa dei vertici federali. L’inchiesta doveva far pulizia e, sepolta l’èra delle combine, degli imbrogli, della giostra mediatico-sportiva (non senza addentellati politici) cominciava un’èra nuova. Invece, si è avuta un’altra prova che la rigenerazione non può avvenire per mano dei giudici. Dal punto di vista dei risultati sportivi ed economici, l’ultimo decennio è stato disastroso. Se prendiamo i bilanci elaborati dalla Gazzetta dello Sport vediamo che i ricavi sono cresciuti, ma non quanto i costi, le perdite medie sono raddoppiate così come i debiti, mentre il patrimonio è ormai all’osso. Nel frattempo Parma, Reggina, Siena e Messina sono fallite. Tra le big, Inter e Milan hanno ancora ricavi molto simili al 2005, sono in rosso e non hanno fatto passi avanti. La Lazio è riuscita ad abbattere i debiti che derivavano dalla gestione di Sergio Cragnotti, mentre la Roma è passata da una situazione tranquilla alle difficoltà odierne. La Juve ha aumentato tutto: ricavi, costi e debiti.

 

L’altro male, un male di fondo, si chiama resistenza alla modernità. L’Italia è tra gli ultimi mercati nei quali sono arrivati sia i capitali sia i capitalisti stranieri. La Gran Bretagna ha aperto le danze con oligarchi russi e sceicchi del Golfo Persico che, saturato il mercato inglese si sono diretti verso la Francia, la Spagna, il Belgio e la stessa Germania sia pure su scala minore. Sono arrivati poi i cinesi per i quali investire nello spettacolo e nello sport ha una motivazione soprattutto geopolitica, significa un modo di acquisire quel soft power che finora era stato prerogativa dell’occidente. Le autorità di Pechino ora cercano di temperare gli appetiti esteri di colossi come Dalian Wanda o di avventurosi imprenditori rossi: anche questa è una strategia politica perché la priorità del prossimo decennio è consolidare il mercato interno, pur senza chiudersi né fare marcia indietro. I capitali dell’estremo oriente sono arrivati anche in Italia e la prima ad accoglierli è stata l’Inter attraverso il magnate indonesiano Erick Thohir che ha poi venduto alla Suning di Zhang Jindong arrivato a Milano nella primavera del 2016 con l’intenzione di prendere solo il 20 per cento del club nerazzurro. Il gruppo Suning fondato a Nanchino, è un colosso da oltre 40 miliardi di fatturato all’anno, che ha nel retail e nella vendita di elettrodomestici ad ampio consumo il proprio core business. E’ entrato nel calcio dalla squadretta cittadina, ma ha esteso a macchia d’olio la sua guanxi, che in cinese significa rete relazionale, radicandosi anche in Spagna, Inghilterra e Germania grazie all’acquisizione dei diritti tv dei tre campionati europei, trasmessi attraverso Suning PPTV che detiene l’esclusiva in digitale di Liga e Chinese Super League. A partire dal 2018 si aggiudicherà anche il monopolio della Premier League, con un investimento da 600 milioni di euro, e della Bundesliga, per 200 milioni. Cifre che fanno impallidire la serie A.

 

Ben diversa la situazione del Milan, che dopo due anni di trattative è passato nelle mani di Yonghong Li, soggetto misterioso anche in patria, snobbato da Zhang che lo ha incontrato per la prima volta in occasione del derby a San Siro. Per completare l’acquisizione, una operazione da oltre un miliardo di euro, l’uomo d’affari cinese ha chiesto un prestito al fondo statunitense Elliott che a questo punto tiene nelle sue mani il destino del club. Secondo Marco Fassone, un manager passato per Juventus, Napoli e Inter e ora amministratore delegato del Milan, il debito non sarebbe così grave come si pensa. Il problema, più che altro, risiede nella capacità del club di poterlo ripagare. Il debito con Elliott è salito da 255 milioni a 340 milioni di euro, pari a 1,58 volte il fatturato. Il rammarico di Berlusconi, insomma, è più che fondato anche dal punto di vista finanziario.

 

Solo sei club hanno chiuso in attivo il bilancio 2016: Juventus, Torino, Palermo, Carpi, Chievo, Empoli. Perdite pesanti per Milan e Inter

Elliott non è l’unico braccio armato (di denaro) che da Wall Street cala sul calcio italiano. Il primato, infatti, spetta alla Goldman Sachs che tira i fili della Roma. La società capitolina, in mano a Capitalia, era stata portata in dote a Unicredit dopo la fusione del 2007, ma la banca milanese tutta proiettata verso la Mitteleuropa non sapeva che farsene, tanto più che, colpita dalla crisi finanziaria e alla ricerca di capitali, doveva smaltire la zavorra inutile. Prima tenta il colpo grosso con George Soros, fallita la trattativa, nel 2011 sbarca a Roma lo zio d’America, James Pallotta, uomo d’affari italo-americano che a Boston possiede la squadra locale di basket, i Celtics. Con una battuta si rende simpatico ai giallorossi ancora gonfi di rimpianto per i tempi di Giulio Andreotti e dei suoi imprenditori e banchieri di riferimento (i Sensi, i Viola, Cesare Geronzi): “So quanto siano pazzi i tifosi romanisti, ma sono preparato: voi non sapete quanto sono pazzo io”. Per Unicredit è il primo passo verso l’addio, ma Pallotta non è in grado di prendere sulle spalle i debiti pregressi e investire per rendere competitiva la squadra. Dopo nemmeno un anno di gestione (cominciata nell’estate del 2012) la carta americana si fa ben più consistente grazie ai buoni uffici di Claudio Costamagna, già emissario di Goldman Sachs per l’Italia, che conosce bene i lasciti di Capitalia della quale era stato consulente. La regina di Wall Street si accolla l’esposizione della As Roma pari a 158 milioni di euro. Per la Unicredit è una manna, per Pallotta una speranza, per la Goldman un’occasione legata soprattutto al progetto del nuovo stadio per il quale l’anno scorso ha stanziato 30 milioni. Ma proprio questo è un gigantesco punto interrogativo.

 

Tutto sembrava fatto tranne i dettagli e lì è spuntato il diavolo soprattutto perché era stato sottovalutato il trionfo dei pentastellati a Roma. Inatteso soprattutto nelle proporzioni, ha portato in cattedra un mix esplosivo fatto di revanche contro la precedente amministrazione e voglia di creare ostacoli, con fini non del tutto trasparenti ai soggetti economici interessati, a cominciare dalla famiglia Parnasi sui cui terreni dovrebbe sorgere il nuovo impianto, e alla Unicredit che deve recuperare ben 450 milioni dal costruttore. Ma su tutto si staglia il gran rifiuto della modernità. Si comincia dal no ai grattacieli, si va avanti con il no al nuovo raccordo autostradale, non parliamo di treni e metropolitane (gli ingredienti fondamentali per il successo di qualsiasi nuovo stadio in qualsiasi città del mondo, e si finisce con gigantesco No alla fine di un tira e molla tipico di chi non sa decidere. I romanisti accusano la sindaca Virginia Raggi di essere laziale, ma probabilmente farebbe lo stesso anche con Claudio Lotito e la sua squadra del cuore. Il progetto vale circa 1,6 miliardi, la Goldman Sachs li sta cercando con l’aiuto dei Rothschild, due nomi che nella destra romana e nei grillini sono sinonimo di complotto pluto-giudaico-massonico. Chi investe deve avere una ragionevole fiducia che i suoi soldi gli renderanno qualcosa, pur dopo un certo periodo di tempo, ma che fare in un paese dove le regole cambiano quando il gioco è già cominciato e dipendono spesso da deliri ideologici?

 

Il movimento degli ultras esiste ovunque, ma in Italia s’è impadronito degli stadi e condiziona le società

Il rifiuto della modernità è la categoria che molti sociologi utilizzano anche per analizzare il movimento degli ultras che esiste ovunque, ma in Italia s’è impadronito degli stadi e condiziona le società di calcio le quali scendono a patti come si fa con la mafia. Tre fattori sono emersi con prepotenza: il primo è la penetrazione di gruppi politici radicali per lo più di estrema destra, il secondo è una certa solidarietà tra tifoserie contrapposte, di fronte al comune nemico, le forze di polizia, il terzo che sembra più presente in Italia, è la dichiarata ribellione contro il calcio moderno. L’insofferenza nei confronti del calendario-spezzatino è visibile negli striscioni, così come i drappi con la scritta “Questo calcio ci fa Sky-fo”. Un altro punto fermo è la xenofobia, il razzismo, la polemica sui troppi stranieri, il mito dei giovani “nazionali” e dei vivai. Senza rendersi conto che la differenza tra un calciatore italiano di buon livello e uno europeo appare chiara quando quelli che qui sono considerati campioni vanno a giocare all’estero. Invece di pensare con razionale umiltà che altrove abbiamo molto da imparare, molti tifosi italiani (e non solo gli ultras) sono consumati dalla retorica spalmata come miele avvelenato dal circo mediatico e politico.

 

E adesso cosa faremo? Ora che siamo fuori dal campionato mondiale in Russia, che il sistema perde almeno cento milioni, ma ancor più perde reputazione che è sempre la merce più rara e più cara? Che cosa ci attende, un rimescolamento di carte “guidato” dal Coni? E’ una questione di classe dirigente e anche di strategia. La Figc non dovrebbe essere più ostaggio dei club che hanno interesse a tenere bloccato il sistema (la Juventus è stata una delle poche società a opporsi apertamente all’elezione di Tavecchio). E non solo. Va scardinato il “catenaccio” contro chi vuole avere i mezzi per competere trascinando con sé l’intera serie A e la Nazionale. Sbloccare la costruzione di nuovi stadi è un passaggio fondamentale per ridurre la dipendenza dalle televisioni e riequilibrare i bilanci, ma soprattutto è la chiave per aprire le porte al mercato, quello di Adam Smith non il suk di Tripoli. Il calcio è fatto di episodi, ripetono all’unisono allenatori, presidenti, giornalisti, tifosi. Come la vita. In realtà, è fatto anche di capitali coraggiosi, imprenditori visionari, dirigenti che parlano le lingue. Fra poco lo scopriremo anche in Italia, con un po’ di ottimismo e molto senso della realtà.

Di più su questi argomenti: