L'evoluzione di Ventura da mister sconfitto a capro espiatorio necessario
L'ex ct è ormai diventato un modo di dire: non capita a tutti
Il più difficile dei report di minoranza è quello che riguarda l’ex mister della Nazionale, Gian Piero Ventura. Anche solo ascoltando la radio, il più gentile dei media di massa, nella giornata di venerdì primo dicembre, dedicata ai sorteggi mondiali, parole e allusioni spietate all’ex allenatore sono arrivate non solo dai comici ma persino dai radiogiornali delle reti nazionali. Se così fa la radio, immagino che cosa sia accaduto in televisione. Sui social è bastata un’occhiata per rendersi conto della situazione. L’ex tecnico della Nazionale si è infatti reso colpevole dell’atroce crimine di essere in vacanza a Zanzibar mentre avvenivano i sorteggi della competizione a cui, purtroppo, l’Italia da lui diretta non è riuscita a qualificarsi. Continuando così, la prossima estate, al ri-acuirsi della ferita, ci si metterà fisicamente sulle tracce del malcapitato.
Inutile dire che si sta esagerando, nonostante, obiettivamente, la Nazionale abbia rovinato l’estate prossima a tutti. Realisticamente occorre ammettere che Ventura ha fatto bene ad andare a Zanzibar, che il rispetto del suo contratto andava onorato come per tutti i lavoratori e che ha tutto il diritto di fare le ferie che vuole e dove vuole. E’ sempre curioso come il moralismo, cioè il decidere le misure morali altrui su parametri mai discussi nelle loro ragioni, sia ormai la cifra generale della nostra cultura.
Tuttavia, il caso Ventura ha anche un interessante lato comunicativo. Il New York Times, a cui ho visto dedicare una rarissima seconda pagina il giorno successivo alla clamorosa eliminazione, diceva che “è stata una Svezia” diventerà un modo di dire italiano. Come spesso accade ultimamente, il celebre giornalone si sbagliava. In questo caso, è stato l’allenatore e non la partita a diventare un modo di dire. In Italia ormai si dice “il Ventura” di questo o quell’ambito per indicare una persona incapace di gestire un patrimonio ricco e molto promettente. Ciò che sta avvenendo all’ex allenatore del Toro (ahimè) e della Nazionale è un destino che non capita a molti: il suo cognome, staccandosi progressivamente dalla persona, sta diventando un indice di sfortuna e un simbolo di incapacità. Gli haters dell’ex-mister dovrebbero sentirsi soddisfatti: non penso che ci sia contrappasso più pesante di quello di venire eternato nel linguaggio. Capita alle volte ai luoghi (“è stata una Caporetto”), alle persone reali (“prendere una decisione pilatesca”) e a quelle immaginarie (“il complesso di Edipo”). Non c’è bisogno di ulteriori linciaggi morali, il crudele genio del linguaggio e del popolo ha già proceduto alla condanna e alla pena. Vedremo se si assesterà nel tempo, ma purtroppo temo per la persona che la probabilità di rimanere nel linguaggio siano alte, vista la mania nazionale per il calcio che, nonostante tutto quello che la razionalità ci insegna, non riusciamo a considerare “solo un gioco”. Si rassegni l’ex mister, in fondo non capita a tutti di diventare un modo di dire e, per il meccanismo dei segni, una volta entrati a livello simbolico le parole tendono a perdere contatto con il proprio riferimento iniziale, come accade a tutte le parole storiche menzionate e come ben sappiamo dall’uso quotidiano e generalizzato di parole che indicano attributi sessuali che, evidentemente, nessuno considera più nel loro riferimento iniziale.
Se poi gli andasse davvero bene, il destino della sua immagine potrebbe avere persino un girone di ritorno se le sorti del calcio migliorassero in futuro. Data la sua funzione attuale di capro espiatorio di un intero sistema e del profondo discontento di tanti fattori quotidiani della nostra povera epoca, alla fine, con quel naso triste da italiano, Ventura potrebbe rimanere icona di tutte quelle crisi profonde e cruciali che capitano nelle vite di tutti noi e che ci spingono a ricominciare. Un po’ come il signor Malaussène di Daniel Pennac, assolvendo la funzione sociale di capro espiatorio, ci risulta necessario e, fra qualche anno, assorbito il dolore e (speriamo) ricominciata la gloriosa tradizione, rischieremo di ricordarlo con affezione.