Il calcio si è fermato a Davide Astori
Il difensore della Fiorentina è morto nella notte nell'albergo di Udine dove alloggiava la squadra. La serie A ha rinviato tutte le partite perché non si può pensare di giocare quando accade l'inspiegabile
Quando un carrozzone sportivo e mediatico qual è il calcio moderno si ferma improvvisamente e nessuno protesta, dev'essere successo qualcosa di grande e di grave. Qualcosa che difficilmente può essere analizzato seguendo la logica del costo-beneficio. Non si interrompe uno sport che muove centinaia di migliaia di persone, che genera un fatturato enorme e fa identificare paesi interi con una o un'altra squadra, per una sciocchezza. Serve un evento che vada oltre la spiccia razionalità, che superi la consueta abitudine della domenica calcistica. La morte non preventivata di uno dei protagonisti di questo mondo rientra in tutto questo, perché la morte di un uomo di trentun anni ancora nel pieno della propria prestanza fisica è qualcosa di inspiegabile, forse assurdo. La notizia della morte di Davide Astori, difensore e capitano della Fiorentina, è arrivata stamattina e ha lasciato tutti sbigottiti, tutti incapaci di trovare un senso a quanto successo. Forse anche perché la spiegazione medico scientifica (“cause naturali”, un cuore che improvvisamente smette di battere e una vita che se ne va), non basta a dare un senso a ciò che è successo.
Davide Astori oggi avrebbe dovuto guidare i suoi compagni come ha sempre fatto, dalla difesa, cercando di fare quello che per decenni ha compiuto in modo più o meno buono, ma sempre con una dedizione da chiunque riconosciuta: evitare agli attaccanti avversari di segnare. Ieri sera è andato a letto probabilmente con questo in testa. Questa mattina, però, non si è alzato. Forse è stato un infarto, si saprà nei prossimi giorni. L'unica cosa certa è che una spiegazione a quanto successo è difficile da trovare e quindi meglio fermarsi, tutti. Perché questo è quello che si deve fare quando non ci sono facili risposte, quando anche un gol in fuorigioco, un torto arbitrale, una decisione contestabile del Var, un eurogol perde di interesse.
Il calcio è un gioco abbastanza semplice: si deve far entrare un pallone in una porta una volta in più degli avversari. E proprio perché semplice si presta a essere seguito, discusso, spesso idolatrato. È uno sport dove l'eccezionalità del singolo conta solo se inserita in un collettivo che funziona. Se i primi, i campioni, sono la copertina, tutti gli altri rappresentano la sostanza di un gioco che proprio per questo riesce a trasformare in eroi coloro che superano la normale concezione del limite umano. Il calcio altro non è che "un intrattenimento capace di trasformare in miti uomini normali, semplicemente perché ognuno sa cosa vuol dire avere una palla tra i piedi, ma chiunque sa altrettanto bene quanto è difficile far fare alla palla quello che la testa vorrebbe far fare ai piedi", raccontava nella sua prima rubrica a Zona, programma di qualche decennio fa su Tele +, Carmelo Bene. E poi aggiungeva: “Proprio per questo, consideriamo infiniti i calciatori, nel senso che non finiscono, superano la temporalità: ricordiamo ancora Meazza come uno dei più forti attaccanti italiani, ma chi ha mai visto giocare Meazza?”.
Prima di essere immagine il calcio, come qualsiasi altro sport, è stato racconto. Un racconto fatto anche di numeri, ossia presenze e gol, coppe e scudetti, vittorie e sconfitte. Quelli di Meazza sono incredibili, quelli di Davide Astori tanti: 289 presenze in serie A e 14 in Nazionale, 7 gol in campionato e 1 in azzurro. Oltre i numeri c'è poi la storia, quella di un uomo che è stato promessa, che al Milan si diceva “questo farà strada” e che di strada ne ha fatta, ma lontano dai colori rossoneri. Un uomo che è divenuto realtà a Cagliari, che è passato per la Roma giallorossa per poi diventare titolare prima e capitano poi a Firenze: un uomo capace e caparbio, uno “su cui si può contare sempre” e proprio per questo se non campione, quasi sempre indispensabile.
Davide Astori era uno di quelli che venivano applauditi e criticati a seconda della partita, mai osannati. Perché è parte del ruolo, quello del difensore, a volte decisivo, a volte deprimente, sempre ingrato: sei sei perfetto è la norma, se sbagli sono fischi.
La sua storia in viola e nella vita si è fermata il 4 marzo a Udine. La sua storia però rimarrà per sempre, perché “i calciatori sono fatti per invecchiare in campo, per renderci edotti di come la vita funziona: nasce, raggiunge l'apice, tramonta. È qualcosa di assolutamente ingiusto che questo ciclo si interrompa prima”, scriveva Santiago Fuertes sul Pais dopo la morte sul terreno di gioco il 28 agosto 2007 di Antonio Puerta, centrocampista del Sevilla.
Di Davide Astori rimarrà il ricordo e l'ennesimo numero, quello che difficilmente qualcuno stamperà su una maglietta della Fiorentina, quel 13 che come accade in questi casi sarà suo e solo suo per sempre.