Di Biagio, il federale
Il commissario tecnico della nazionale è nei ranghi azzurri dal 2011 ed è l’unico che potrebbe essere confermato alla fine dell’interim
Quattro mesi sono trascorsi e l’Italia non ha ancora una guida. Si parla di pallone, è vero, ma assomiglia tanto a quanto potrebbe capitare alla politica, un po’ più in là. In entrambi i casi c’è stato un evento scioccante alla base: la mancata qualificazione al Mondiale da una parte, le elezioni dall’altra. E gli uomini del calcio vagano ancora confusi: tutto ad interim, tutti commissari. Una sorta di governo dei tecnici, quello vagheggiato da chi vorrebbe portare l’Italia nuovamente alle urne. C’è un commissario straordinario per la Federcalcio, ovvero Roberto Fabbricini, segretario generale del Coni, la litigiosa Lega Serie A, dopo quasi un anno di scontri e commissari ha finalmente eletto il suo presidente, Gaetano Micciché. E poi c’è un commissario per la Nazionale, forse l’unico commissario con una possibile definitività. Perché Gigi Di Biagio, scelto per traghettare l’Italia in questa fase, un domani potrebbe trovarsi ancora al comando. Perlomeno lui ci prova.
Un ritorno all’antico, a quando gli allenatori dell’Italia erano costruiti all’interno delle mura del Centro tecnico di Coverciano
Il ct a tempo si gioca tutto nelle due amichevoli che attendono l’Italia alla ripresa della stagione. In campo venerdì 23 marzo all’Etihad Stadium, dove si esibisce il Manchester City di Pep Guardiola, e martedì 27 a Londra, a Wembley, momentanea casa del Tottenham in attesa di entrare nel nuovo White Hart Lane. Avversarie Argentina e Inghilterra, due squadre di prestigio, due squadre che andranno al Mondiale. Due partite che erano state organizzate in quest’ottica anche per l’Italia, solo che noi in Russia non ci saremo. Tutto termina e tutto ha origine in quella sera del 13 novembre 2017 a Milano. San Siro ammutolisce al 90’, con la Svezia finisce 0-0 e l’Italia è eliminata al playoff dopo aver perso 1-0 l’andata. Da sessant’anni le maglie azzurre non mancavano l’appuntamento con la fase finale, da quel 1958 in cui furono eliminate dalla tutt’altro che irresistibile Irlanda del Nord. Anche la Svezia era ritenuta abbordabile per l’Italia, costretta allo spareggio dopo aver mancato la qualificazione diretta, seconda nel girone alle spalle della Spagna. Nessuno aveva però fatto i conti con un’avversaria che, rispetto alla nostra, era squadra vera. Nessuna stella, dopo l’addio di Zlatan Ibrahimovic (e che ora ci starebbe ripensando in ottica Russia), ma un gruppo solido e compatto. Tutt’altro rispetto all’Italia, con gli anziani andati subito in conflitto con Gian Piero Ventura e con quest’ultimo prigioniero delle sue paure e delle sue convinzioni. Il presidente federale Carlo Tavecchio lo aveva preso dalla panchina del Torino, immaginando che avrebbe continuato il lavoro avviato da Antonio Conte, ma non aveva fatto i conti con la scarsa esperienza internazionale di un allenatore che non aveva mai gestito una grande squadra e che aveva nel proprio curriculum estero appena quattordici partite di Europa League. Due particolari che, purtroppo per l’Italia, si sono saldati a un’alta considerazione di se stesso, causando il cortocircuito che ha condotto la Nazionale al gradino più basso della sua storia contemporanea.
Al fallimento sportivo ha fatto seguito quello politico. Tavecchio ha cercato di trovare sponde, di resistere, di non mollare la poltrona. A dire il vero la sua presidenza, cominciata tra i dubbi di chi vedeva al comando del pallone uno che veniva dai Dilettanti e un paio di scivoloni (su tutti quell’“Optì Pobà” adoperato per indicare i giocatori africani), aveva portato a casa anche buone cose: un ruolo di peso nell’Uefa dopo aver lanciato la corsa al nuovo presidente Aleksander Ceferin, l’aumento a quattro posti di diritto per le italiane nella fase a gironi della Champions League, l’organizzazione della finale dell’Europeo Under 21 nel 2019. Ma tutto è passato inesorabilmente in secondo piano dopo il crollo azzurro e Tavecchio ha dovuto prenderne atto, come prima di lui Giancarlo Abete e il suo vice Demetrio Albertini dimissionari, insieme con il ct Cesare Prandelli, immediatamente dopo l’eliminazione al Mondiale in Brasile. Un addio che era stato interpretato da molti come la possibile rigenerazione del calcio italiano. E’ accaduto esattamente il contrario. Tre candidati alle elezioni del 29 gennaio: Damiano Tommasi presidente dell’Assocalciatori, Gabriele Gravina numero uno della Lega Pro e Cosimo Sibilia (senatore di Forza Italia e figlio dell’indimenticabile Antonio, l’uomo che portò l’Avellino in serie A) gran capo dei Dilettanti e dato per favorito. Tutti, a parole, pronti a dare una nuova impronta al calcio italiano ma, nei fatti, eredi di una stanca liturgia elettorale. Nessuno fa un passo indietro, nessuno è in grado di trovare un alleato. Risulta inutile perfino l’attivismo dell’immancabile Claudio Lotito, gran regista della nomina di Tavecchio nel 2014. Il patron della Lazio briga su più tavoli, tentando l’assalto in prima persona alla Lega Serie A e manovrando dietro le quinte per la Figc. Viene respinto, mentre le elezioni si concludono con un nulla di fatto: prima Tommasi, poi Sibilia si sfilano dalla corsa, senza dirottare i propri voti. Il risultato dell’urna è la vittoria simbolica di Gravina con il 39,06 per cento, sommerso dalle schede bianche (59,09 per cento) di Aic e Dilettanti.
Il commissario tecnico a tempo si gioca tutto nelle due amichevoli che attendono l’Italia alla ripresa della stagione, il 23 e 27 marzo
Un esito che apre la strada ai commissari e ai loro esperti. Uno di questi è Alessandro “Billy” Costacurta, gran difensore del Milan e della Nazionale, invidiato marito di Martina Colombari. Malagò lo strappa ai salotti di Sky, dove commenta il campionato, e lo piazza a fianco di Fabbricini. Il primo atto è scegliere il ct. Tifosi e stampa specializzata (a dire il vero più quest’ultima) invocano una soluzione immediata e di prestigio. Facile a dirsi, non a realizzarsi. I soldi ci sarebbero anche, visto che Michele Uva – attento direttore generale della Federcalcio – è riuscito a inserire nel bilancio previsionale una voce da cinque milioni lordi come ingaggio del nuovo selezionatore. Allo stesso modo ci sono i candidati che piacciono a tanti: si tifa per il ritorno di Antonio Conte, il martello che aveva rialzato l’Italia dopo il Mondiale 2014, Carlo Ancelotti è sempre apprezzato per la capacità di unire equilibrio ai risultati mentre Roberto Mancini è stimato per l’abilità nel gestire lo spogliatoio. Il problema è che sono sotto contratto fino a giugno. E, comunque, non è detto che anche dopo quella data siano disposti a guidare l’Italia. Tutti ne parlano come di una panchina di prestigio, sempre tutti spostano nel futuro l’eventuale responsabilità azzurra. Prima vengono i club, con i loro campioni, con le loro coppe, con i loro stipendi, sempre più ricchi dei cinque milioni lordi (più eventuali bonus) garantiti dalla Federcalcio.
Inevitabile, a questo punto, il ricorso a una soluzione interna. A una “riserva della repubblica” se vogliamo ributtarla in politichese. Gigi Di Biagio, per l’appunto, un uomo che era già in casa. Il tecnico è un “federales” a tutto tondo, entrato nei ranghi azzurri nel 2011: prima l’Under 20 poi, dal 2013, l’Under 21. E’ un ritorno all’antico, a quando gli allenatori dell’Italia erano costruiti all’interno delle mura del Centro tecnico di Coverciano, riconosciuto in tutto il mondo come una delle migliori scuole di formazione. Una tradizione avviata dopo il Mondiale 1966, quando si chiude il ciclo di Edmondo Fabbri, alla base del miracolo Mantova (dalla serie D alla A in cinque stagioni). In Inghilterra ci copriamo di ridicolo, cacciati per un colpo di mano della misteriosa Corea del Nord e di Pak Doo-Ik. La Federazione chiude le porte agli stranieri, affidando la Nazionale a una commissione tecnica con Helenio Herrera e Ferruccio Valcareggi, con quest’ultimo a gestire nei fatti la squadra. Salutato “Fuffo” con il flop al Mondiale 1974 (quello dell’“Azzurro tenebra” di Giovanni Arpino) tocca a Enzo Bearzot, prima in coppia con Fulvio Bernardini e poi da solo, per la stagione più bella: dal quarto posto in Argentina al trionfo in Spagna nel 1982. E poi Azeglio Vicini, appena morto, dal 1986 al 1991 (con la delusione di Italia 90), e Cesare Maldini dal 1997 a metà 1998, dopo l’interregno di Arrigo Sacchi, lesto nel tornare al Milan appena gli si era presentata l’occasione. Tutta gente fatta in casa, tutta gente che vedevi sulla panchina azzurra come secondo (Maldini al fianco di Bearzot al Mundial) oppure come responsabile dell’Under 21, cui seguiva inevitabile promozione.
Di Biagio si inserisce nel solco di questa tradizione, è uno che dice di “sentirsi un uomo federale perché mi piace lavorare in questo contesto e con i giovani”. Lui, invece, in azzurro non arriva da giovanissimo. Lo fa esordire Maldini a 26 anni, il 28 gennaio 1998 in un’amichevole vinta 3-0 con la Slovacchia. All’epoca è un centrocampista già moderno, uomo di raccordo tra la fase difensiva e quella offensiva, reinventato in quel ruolo a Foggia da Zdenek Zeman, che lo aveva accolto dal Monza dove aveva giocato anche centravanti. Di Biagio ha il piede per i lanci, la potenza per le conclusioni, il timing giusto per colpire di testa. Di carattere, poi, non le manda a dire: duro e deciso al punto da raccogliere dodici espulsione in carriera, al secondo posto in compagnia di Giulio Falcone e dietro all’inarrivabile Paolo Montero con sedici. Dopo Foggia gioca con Roma e Inter ad alti livelli, senza però vincere alcunché: l’unico trofeo è la Coppa Italia di serie C, conquistata con il Monza nel 1991. Anche in azzurro si avvicina al traguardo senza tagliarlo. Al Mondiale 1998 è protagonista delle dimissioni di chi lo aveva chiamato nell’Italia. Di Biagio, a Saint-Denis, calcia sulla traversa l’ultimo rigore, regalando la semifinale alla Francia dell’illusione multietnica e mettendo Maldini alla porta. Peggio ancora due anni dopo, all’Europeo itinerante tra Olanda e Belgio, dopo una semifinale vinta proprio con gli arancioni, in un’altra serie di rigori. Di Biagio si assume all’Amsterdam Arena l’onere di iniziare la serie per cancellare i fantasmi di due anni prima e segna, mentre Francesco Toldo completa il lavoro annullando i tentativi di Frank De Boer e Bosvelt. Ma è a Rotterdam, nella finale del 2 luglio, che il dramma (sportivo) si compie. Italia avanti nella ripresa con Delvecchio, pareggio della Francia in piena recupero con Wiltord e sorpasso nel primo supplementare con il “golden goal” (una delle pessime trovate dell’epoca: chi segna per primo vince) di David Trezeguet. L’allenatore è Dino Zoff, che lascia due giorni dopo per le critiche feroci di Silvio Berlusconi al raduno del Milan. Di Biagio fa ancora in tempo a vivere la delusione del Mondiale 2002 assistendo, dalla panchina, all’eliminazione dell’Italia a opera della Corea del Sud con un altro “golden goal” (quello del perugino Han), in un match pilotato dall’arbitro ecuadoriano Byron Moreno.
I soldi ci sarebbero anche, visto che nel bilancio previsionale c’è una voce da cinque milioni lordi come ingaggio del nuovo selezionatore
La carriera azzurra come calciatore si chiude quattro partite dopo, in quell’anno. Quella come allenatore potrebbe decollare adesso. Con l’Under 21 i risultati non sono stati all’altezza delle aspettative, non tanto l’eliminazione nella fase a gironi all’Europeo 2015 in Repubblica Ceca, quanto quella dell’anno scorso in Polonia, con una Nazionale che aveva in rosa ben sei giocatori nel giro della squadra maggiore (Donnarumma, Rugani, Gagliardini, Pellegrini, Petagna e Bernardeschi) e uno che vi entrerà a breve (Chiesa). La solita Spagna ci ha sculacciati 3-1 in semifinale. Il ct ad interim è consapevole di poter ipotecare un futuro in 180 minuti: “Non esistono amichevoli – sottolinea – io mi vado a giocare tanto. Conosco tutte le problematiche di Coverciano, questo è un grande vantaggio. Mi hanno chiesto quale fosse il mio obiettivo. Nella vita sono stato realista e ambizioso, lo confermo anche oggi. Non so che cosa succederà, devo cogliere al volo questa occasione e sfruttarla. Pensare a fare bene e basta”. Gli aspiranti commissari tecnici sono avvisati.