Fabiano Caruana e l'ultimo arrocco
Un italo-americano punta al titolo mondiale, ma i robot giocano meglio. Gli scacchi, luogo del passaggio di consegne tra l’uomo e la macchina
Le cronache raccontano che martedì scorso, dopo aver vinto il Torneo dei candidati, a Berlino, incassando 95.000 euro, lo sfidante si è recato in un ristorante italiano, sulla Potsdamer Platz, dove ha mangiato e bevuto dell’ottimo Chianti. Il campione gli ha fatto i complimenti via Twitter, augurandogli buona fortuna per il match che li opporrà in novembre, a Londra. Ed è lì che vedremo finalmente il norvegese Magnus Carlsen, di anni 27, difendere la corona scacchistica mondiale, contro lo sfidante: Fabulous Fab, Fabiano Caruana, di anni 26. Chi morisse dalla voglia di vederli all’opera subito non avrebbe che da recarsi a Baden-Baden: il supertorneo al quale sono entrambi iscritti comincia infatti oggi. Chi invece volesse maledire il destino, la Federazione scacchistica italiana e la fuga dei cervelli dal nostro paese, non dovrebbe far altro che riguardarsi l’albo d’oro del Campionato italiano assoluto di scacchi: l’italo-americano con doppio passaporto Caruana lo ha vinto quattro volte, nel 2007, 2008, 2010, 2011, difendendo i colori azzurri anche alle Olimpiadi, prima di passare definitivamente alla Federazione statunitense, nel 2015. Ci siamo fatti scappare un possibile campione del mondo.
Di italiano, in realtà, Caruana ha molto poco: il nome, il cognome, i genitori, forse il gusto per il cibo. Ma non la lingua, non la cultura né la formazione scacchistica. Nato a Miami, ha vissuto infatti negli Stati Uniti, per poi muoversi in giro per l’Europa, tra Spagna e Svizzera, da dove ha intrapreso la sua scalata all’Olimpo mondiale. Ora è in cima al mondo, pronto a giocarsela con Carlsen, campione in carica ma anche uno dei più forti giocatori di sempre.
Dei più forti giocatori umani, s’intende: fatti di carbonio e non di silicio. Perché su un altro monte, ancora più alto e inarrivabile, a contendersi il titolo di giocatore più forte al mondo sono i motori scacchistici. Le macchine. Non mangiano italiano né bevono Chianti, ma giocano meglio, molto meglio dei loro imperfetti colleghi mortali.
Per dare un’idea. Primo in graduatoria, Magnus Carlsen ha, mentre scrivo, 2.844 punti Elo. Il punteggio Elo sta agli scacchi come il punteggio Atp sta al tennis: è un misuratore della forza dei giocatori, che varia in base ai risultati di ogni singola partita disputata, tenuto conto del livello degli avversari. Il record dell’Elo più alto mai raggiunto è 2.861 (Carlsen, gennaio 2013). Caruana è un po’ più giù: ottavo al mondo, ha attualmente 2.784 punti, anche se con la vittoria di Berlino dovrebbe guadagnare una ventina di punti Elo e tornare sopra quota 2.800. La palma del motore con il punteggio più alto è invece contesa fra Houdini e Stockfish, ma entrambi sono molto più su, intorno ai 3.400 punti. (E qui c’è davvero un po’ d’Italia, visto che uno dei programmatori del motore Stockfish, Marco Costalba, è italiano).
Non basta. I candidati che si sono battuti a Berlino per scegliere lo sfidante di Carlsen hanno giocato un torneo di 14 turni. E han finito con la lingua di fuori, sottoposti a un enorme dispendio fisico e nervoso. Instancabili, i motori che si sono affrontati per l’accesso alla “Top Chess Engine Championship” (quasi un campionato del mondo per supercomputer, iniziato giovedì scorso) hanno disputato la bellezza di 84 partite, consumando un bel po’ di energia elettrica ma, come si può immaginare, senza alcuno stress psicologico. Ma allora perché continuare a giocare a scacchi, ora che i motori lo fanno meglio e senza sforzo? Perché appassionarsi a Caruana che a tre turni dalla fine perde lo scontro diretto con il russo Sergey Karjakin, facendosi raggiungere in vetta, salvo poi vincere le ultime due partite e concludere con un punto di vantaggio il torneo? O perché incuriosirsi per la prestazione dell’unico imbattuto del torneo, il cinese Ding Liren, finito quarto, somigliantissimo all’alieno Megamind del cartone Dreamworks? (Stanno arrivando, i cinesi stanno arrivando anche negli scacchi).
Sono finiti i tempi in cui in ballo, tra torri e alfieri, erano gli equilibri geopolitici del mondo. Come nella più famosa sfida di scacchi della storia, quella fra l’americano Bobby Fischer e il sovietico Boris Spassky, a Reykjavik, nel 1972, in piena Guerra fredda. Con il segretario di stato Henry Kissinger costretto a prendere il telefono e chiamare quel matto di Fischer, per spingerlo a volare una buona volta nella capitale islandese, vincere quello stramaledettissimo match e dimostrare la superiorità del mondo libero sulla scuola sovietica, fino ad allora dominatrice della scena.
Un’altra epoca, tutt’altre storie. La parabola del gioco sembra ormai offrire la più palpabile evidenza che aveva ragione il filosofo Gunther Anders: l’uomo è antiquato. Gli scacchi sono divenuti il luogo del passaggio di consegne tra l’uomo e la macchina, tra la vita intelligente e l’intelligenza senza vita. Si conoscono tempo e luogo del sorpasso. 11 maggio 1997, New York: si conclude l’incontro tra Deep Blu, il computer progettato dall’Ibm, e l’Orso di Baku, l’azero Garry Kasparov, talentuosissimo campione del mondo in carica. Sul Wall Street Journal quel giorno si legge: “Un piccolo passo per un computer, un gigantesco balzo indietro per l’umanità”. Perché Kasparov perde l’ultima partita e, con essa, il match. Perde pure male, in sole diciannove mosse, avanzando sospetti sul comportamento del team Ibm, lamentandosi delle condizioni della sfida, prendendosela insomma col mondo intero.
Sulla sconfitta con Deep Blue Kasparov è tornato però di recente (“Deep Thinking”, PublicAffairs, 2017), sine ira ac studio, interrogandosi sul significato del gioco una volta che si fosse dimostrata – come si dimostrò – la superiorità del computer: “I giocatori umani diverranno loro stessi degli automi, rigurgitando mosse e idee mostrate loro dalle machine? Il giocatore vincente sarà quello col più forte computer casalingo?”. Il modo in cui l’ex campione del mondo di scacchi risponde a tali domande lo porta al di là del destino delle 64 caselle. Perché il gioco conta, ma there is more life than chess. Finché siamo sulla scacchiera, ormai lo sappiamo: la potenza di calcolo della macchina non può non prevalere. La “deprimente verità” (deprimente per un appassionato del gioco) è che la funzione di valutazione di cui i computer sono dotati, unita alla velocità del processore, è ben oltre le capacità umane. Ma c’è anche una verità meno deprimente, che riguarda la vita intera, la nostra stessa vita, per la quale non sono disponibili funzioni di valutazione all’altezza della sua varietà e complessità, né per essa risulta prefissato, come in un gioco, il fine che bisogna perseguire. Rispetto al compito di vivere e al suo senso, la macchina non può né superare né sostituire l’uomo.
C’è, però, dell’altro. Perché non è affatto sicuro che sia appropriato affermare che il computer “gioca” per davvero a scacchi. E, allo stesso modo, non è affatto sicuro che Deep Blue fosse veramente “intelligente”. Il capofila del progetto Ibm, Feng-Hsiung Hsu, ha scritto del resto, nel suo resoconto dell’epica sfida (“Behind Deep Blue”, Princeton University Press, 2002): “Deep Blue non è intelligente. E’ solo uno strumento costruito con abilità, in grado di esibire un comportamento intelligente in un dominio limitato”. Per Hsu, esibire un comportamento intelligente non è ancora essere intelligente. (E chiaramente chi non possiede intelligenza non può nemmeno giocare ad alcunché). Costruire una chess machine non richiede di capire il funzionamento della mente umana, ma solo di risolvere un problema di ingegneria informatica. il modo in cui una macchina si orienta nel gioco, così come il modo in cui – solo per fare un altro esempio – Google Translate traduce una frase, è profondamente diverso dal modo in cui procede un uomo nel risolvere i medesimi problemi. Questa differenza rimane, anche se è dimostrato che la performance scacchistica del computer è ormai superiore a quella dell’uomo. E anche se non si può escludere del tutto che in futuro pure la performance del traduttore automatico potrà rivelarsi superiore a quella umana: magari non in assoluto, ma in certi ambiti tecnici o commerciali ben delimitati, in cui il linguaggio funziona come un mero strumento di comunicazione.
Così certamente la pensa il filosofo John Searle, l’ideatore del celebre esperimento mentale della stanza cinese, con il quale Searle si proponeva di dimostrare che la manipolazione in base a regole dei simboli di una lingua non equivale ancora alla comprensione di quella lingua. Allo stesso modo si dirà: il migliore impiego dei pezzi degli scacchi sulla scacchiera non equivale ancora alla comprensione del gioco, alla sua vera intelligenza.
Già, ma allora che cosa c’è di più, in questa comprensione? Che cos’è che gli dona profondità? Qui si offrono due possibili risposte. Una fa appello a quel misteriosissimo “quid” individuale che ognuno di noi avrebbe, la si chiami anima o in altro modo, che nessuno è ancora in grado di insufflare in un computer. L’altra poggia invece su quello che c’è intorno, sulla dimensione sociale del gioco, sulle storie, sui ruoli e le rappresentazioni, su quella che Wittgenstein chiamava la forma di vita alla quale il gioco appartiene. Anche il filosofo austriaco ha proposto il suo bravo esperimento mentale: se, per ipotesi, osservassimo un popolo di danzatori eseguire strani movimenti coi piedi e le braccia, e scoprissimo per avventura che la sintassi di quei movimenti corrisponde perfettamente agli spostamenti dei pezzi degli scacchi su una scacchiera, saremmo autorizzati a dire che quegli strani danzatori stanno giocando, sia pure a modo loro? In realtà, non avremmo motivo di dirlo, perché il gioco è più delle sue regole; è, semmai, la capacità di vedere un certo insieme di regole e di movimenti conseguenti “come” un gioco. Questa capacità di “vedere una cosa come un’altra” riposa sulla condivisione di un mucchio di cose anche molto diverse fra loro. Cose come l’avere un corpo, ad esempio, o l’osservare certe abitudini, il frequentare gli altri o il possedere una storia comune. Deep Blu e tutte le macchine dopo di lui (o lei?) non pensa – se ne può concludere – non perché le mosse che esegue non siano corrette (e, anzi vincenti), ma perché prendono significato di mosse solo entro una cornice sociale e culturale che Deep Blu non possiede. E che non si può trovare tra i suoi chip perché, per la verità, non si trova neppure soltanto nei nostri neuroni. Un grande psicologo della percezione, James J. Gibson diceva: non chiederti cosa c’è nella testa, chiediti piuttosto dentro cosa si trova la testa. E questo, i programmatori ce lo consentiranno, non è più un problema tecnico, di architettura di reti neurali, ma è un problema politico, di costruzione di un mondo libero, aperto e plurale, in cui l’intelligenza possa continuare ad esercitarsi.
Che fine hanno fatto i protagonisti di questa storia?
Bobby Fischer muore dieci anni fa. Dopo aver sconfitto Spassky ed esser divenuto campione del mondo (unico americano ad esserci riuscito, finora), smette di giocare. Perde la corona mondiale a favore del russo Karpov e scompare dalla circolazione. Ricompare vent’anni dopo, quando gioca un platonico match di rivincita con Spassky (non riconosciuto dalla Federazione mondiale) nell’ex Jugoslavia, allora sotto embargo Onu. Si becca così un mandato d’arresto da parte delle autorità statunitensi. Riappare un’altra volta anni dopo: fermato in Giappone, viene rilasciato qualche mese dopo. Finisce i suoi giorni in Islanda, che memore dei giorni di Reykjavik gli concede la cittadinanza.
Garry Kasparov abbandona gli scacchi nel 2005 e si tuffa nell’attività politica. Oppositore di Vladimir Putin, viene arrestato diverse volte dalla polizia russa. L’anno scorso è tornato alle competizioni ufficiali, partecipando con i migliori giocatori del mondo al supertorneo di St. Louis, ottenendo un buon risultato (anche se non così buono per uno abituato a vincere tutto). Alla stampa ha dichiarato, schermendosi, di essersi preso solo qualche giorno di vacanza.
Fabiano Caruana e Magnus Carlsen sono ancora nel bel mezzo della loro storia. Passeranno i prossimi mesi a studiarsi, in lunghissime sessioni di lavoro casalingo. Caruana ha sfoggiato a Berlino una preparazione e una solidità senza precedenti, ma il favorito rimane Carlsen, il cui gioco non mostra punti deboli. (E, quanto al computer, una volta ha spiegato perché è meglio lasciar perdere: “E’ come giocare con uno molto stupido, ma perdere lo stesso”).
Feng-Hsiung Hsu lascia l’Ibm nel 1999. Vive a Taiwan. Qualche anno fa la Disney ha acquistato uno script di Matt Charman, “The Machine”, basato sulla vita del creatore di Deep Blue. Prima o poi ne farà un film.
Deep Blue si ritira dalle competizioni subito dopo il match con Kasparov. Per lui è naturale: l’Ibm ha da implementare nuove, più potenti versioni del motore. Ma la gloria di aver battuto il campione del mondo Kasparov gli vale una collocazione di tutto rispetto nel museo dello Smithsonian Institute, dove parti del processore sono attualmente esposte.
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