Cosa spinge i ricconi del calcio a investire nella serie B belga
È il calcio contemporaneo, quello che Nenad Petrovic, agente di giocatori, definisce una sorta di laboratorio sperimentale: “Il football di domani, ultra capitalista e ultra globalista, in barba alle regole di Fifa e Uefa”
Si chiama Proximus league, è la serie B del Belgio e a parte il fatto di essere giocata da sole otto squadre quello che risalta, dopo un’approfondita ricerca, è che sette di queste sono di proprietà straniera. L’Oud-Heverlee Louvain appartiene a King Power, che in Inghilterra possiede il Leicester City, facente capo al tycoon thailandese Vichai Srivaddhanaprabha. L’Union Saint-Gilloise all’uomo d’affari tedesco Jürgen Baatsch. Il Cercle Brugge a Dmitry Rybolovlev, già proprietario dell’AS Monaco (Ligue 1). Il Koninklijke Lierse Sportkring al magnate egiziano Maged Samy. Il Koninklijke Sportvereniging Roeselare alla ricca donna d’affari cinese, residente a Londra, Xiu Li Hawken. L’AFC Tubize, città natale di Eden Hazard, a una società di marketing sud coreana. Il KFCO Beerschot Wilrijk al principe saudita Abdullah. Solo il KVC Westerlo è di proprietà belga. Senza contare che in Pro League (serie A), il KV Kortrijk è malese, lo Standard Liegi giapponese e l’Eupen della qatariota Aspire Academy. È il calcio contemporaneo, quello che Nenad Petrovic, agente di giocatori, definisce una sorta di laboratorio sperimentale: “Il football di domani, ultra capitalista e ultra globalista, in barba alle regole di Fifa e Uefa”.
Eppure qualcosa ci sfugge nella narrazione del calcio belga letta in questi ultimi due anni. Cinque milioni di euro spesi per il centro di formazione federale di Tubize, il paradosso, insieme con altri sette costruiti nel Paese. Trenta tecnici stretti in collaborazione con i club più importanti, incentivando l’impiego dei giovani. Il 4-3-3 come sistema di gioco per tutte le rappresentative e quell’integrazione che già in Germania ha fatto faville e che ha portato in Nazionale giocatori come Kompany, Lukaku e Fellaini. Secondo Petrovic, però, i calciatori che oggi il mondo pallonaro invidia al Belgio, di fatto, si sono formati all’estero, un po’ come accadeva una volta in Italia, dove francesi, argentini, tedeschi e olandesi si sono affinati per poi vincere con le rispettive nazionali. Pierre François, presidente della Pro League, non ci vede niente di male in questa invasione pallonara: “Grazie alla Nazionale il nostro calcio è diventato un prodotto d’esportazione, con un campionato accessibile a tutti”, forse voleva dire d’importazione, ma tant’è.
La verità è che ad attirare gli investitori stranieri è la fragilità economica delle società belghe. Nel Paese della sentenza Bosman in una rosa di diciotto giocatori solamente sei devono essere autoctoni e non ci sono limiti agli extracomunitari, ragione per cui una squadra può schierare anche un undici titolare completamente straniero, diventando così ‘ricettacolo’ per calciatori africani e sudamericani. La fiscalità è più generosa che altrove e le plusvalenze non sono tassate, senza contare che dopo due anni di militanza un atleta può richiedere il passaporto belga, diventando comunitario, dove il permesso di lavoro costa 80.000 euro contro i 400.000 dell’Olanda. Il calcio belga, insieme con quello portoghese, è quindi il meno caro d’Europa, lasciando aperte le porte, però, alle triangolazioni e al riciclaggio di denaro. “La serie B belga non è paragonabile nemmeno alla Ligue 2 francese, non ci sono diritti televisivi, gli incassi sono scarsi e non c’è merchandising”, sottolinea Thomas Meunier, difensore belga del Psg.
Per Vadim Vasilyev, secondo di Rybolovlev, il Cercle Brugge rispecchia la politica del Monaco nella formazione e pre formazione di giovani talenti, come Irvin Cardona, 20 anni, Guévin Tormin, 20, e il brasiliano Crysan, 21. A Roulers, madame Xiu Li vuole portare giocatori cinesi in vista dei Mondiali 2026 e 2030. A Lierse, Maged Samy ha attivato una collaborazione con l’accademia africana di Jean-Marc Guillou e ha promesso ai tifosi di scovare il nuovo Romelu Lukaku e di portarli in Champions, salvo poi mettere in vendita il club e acquistare l’Ergotelis in Grecia. A Tubize i sud coreani parlano d’investire in comunicazione e immagine ma senza un progetto preciso. In questi ultimi anni, infatti, il calcio belga è diventato di proprietà degli agenti, come Mogi Bayat, ex dirigente iraniano del Charleroi, che controlla il 70-90 per cento del mercato, o il collega israeliano Pini Zahavi, uno degli artefici del passaggio di Neymar al Psg, che fa il bello e cattivo tempo al Royal Excel Mouscron, controllato attraverso un fondo d’investimento, cosa vietata dalle regole Fifa.
Calciatori e allenatori girano in continuazione da un club a un altro, senza stabilità né strategie di lungo termine, mettendo in pericolo sia l’identità che il sistema di formazione adottato dalla Federazione. In questo momento la Nazionale, infatti, è come l’albero che copre tutta la foresta, nascondendo un sottobosco per niente virtuoso. Stephane Pauwels, ex scout e cronista del canale televisivo L’Equipe 21, è convinto che questa bolla, speculativa, prima o poi esploderà danneggiando per sempre il calcio belga. Pierre François, invece, replica che “non c’è niente di scandaloso nel fatto che gli stranieri investano nei nostri campionati”. Altri sono convinti che senza questi il movimento belga sia destinato all’irrilevanza, come sta accadendo in Repubblica Ceca, Romania e Slovacchia.
E i tifosi? Si adattano pur di non vedere scomparire il proprio club. La domanda, però, è: fino a quando?