Stadio Olimpico, 30 maggio 1984: Roma-Liverpool è la finale della Coppa dei campioni. Il giallorosso Roberto Pruzzo segna il gol del pareggio. Il Liverpool conquisterà la coppa ai rigori

Il romanista 1984

Stefano Menichini

L’ineluttabilità (in gergo “mai ’na gioia”) e il miracolo. Note sul pensiero giallorosso in vista del Liverpool e per dimenticare una vecchia finale

Nel cuore del cuore di Anfield Road, nella stanza oscurata del museo dello stadio, dove brillano le cinque coppe dei campioni vinte dal Liverpool, c’è anche una vetrina illuminata. Al centro ci sono maglia, pantaloncini e scarpini di Alan Kennedy (il terzino sinistro che nella notte del 30 maggio 1984 segnò il rigore decisivo nella porta di Tancredi). Ben disposto, intorno, c’è una specie di bottino di guerra di quella missione. Tra altri cimeli, un gagliardetto della Roma e soprattutto una bandiera giallorossa. Uguali a quella ce ne devono essere diverse centinaia, in fondo agli armadi, nella mia città. Se non sono state bruciate o lacerate. Sulla bandiera è impressa l’effigie della coppa con le grandi orecchie: stampata lì prima di averla vinta, prima di averla vinta mai. La targhetta della vetrina del museo di Anfield compostamente racconta: “I tifosi della Roma erano così sicuri della vittoria che un grande numero di queste bandiere venne venduto prima della partita, già dichiarando la Roma campione…”. I punti di sospensione sono l’unica concessione all’altrimenti micidiale sarcasmo inglese.

  

Chi era adolescente, o adulto, fondò sui rigori sbagliati di Conti e Graziani una Weltanschauung pregna di pessimismo cosmico 

Della finale di Coppa dei campioni del 1984 s’è già scritto tantissimo, negli anni e negli ultimi giorni, dal primo istante dopo il sorteggio che ha richiamato il Liverpool a Roma per le semifinali di Champions. Anche di quelle bandiere, di quella serata sulle tribune di uno stadio che non era com’è adesso e non funzionava come adesso (sicché entrammo quattro ore prima, per prendere posti che non erano numerati). Le divertite cronache di questi giorni sulle educate file auto-organizzate dai tifosi davanti alle decine di rivendite dei biglietti (con tanto di numeri taglia-code, appelli e contrappelli) andrebbero comparate con quelle dei violentissimi incidenti di trentaquattro anni fa, scoppiati davanti agli unici miseri quattro botteghini aperti all’Olimpico, con oltre quindicimila persone accalcate per tutta la notte e infine egualmente pestate dagli ultrà che scavalcavano la fila e dalla polizia che dava loro la caccia. Già: Roma-Liverpool è una sovrabbondanza di memorie, pesanti e fastidiose, che rimangono caricate sulle spalle di tanta gente tranne, si spera, su quelle di giocatori che tutti (tranne De Rossi che aveva un anno) a quel tempo non erano neanche nati.

  

Giustamente, chi di finali europee ne ha giocate, vinte e perse a mucchi si scoccia per questa ridondanza, per il solito eccesso da romanisti che sempre si pretendono protagonisti nel bene e nel male. “I più” di tutto, a cominciare dalla sfiga, quando la storia del calcio ne ha regalata tanta anche a tanti altri. Ma i romanisti sono in effetti ingombranti, eccessivi, spesso molesti, e siccome lo saranno parecchio almeno nelle prossime due settimane, tanto vale capirci qualcosa di più. Capire il perché, di tanta molestia e di tanta enfasi, di tanto dramma esibito e recitato.

  

Il fatto è che ogni romanista che conosciate sopra i 45 anni, è così come lo conoscete esattamente a causa della memoria, diretta o molto ravvicinata, di quella notte dell’84. Non parlo di chi allora era proprio bambino, e poté vivere quella delusione per lo più riflessa da padri e fratelli maggiori come cerimonia di ingresso nella tribù. Parlo di chi era adolescente, o adulto, e fondò sui rigori sbagliati di Conti e Graziani una Weltanschauung pregna di pessimismo cosmico e negatività irrevocabile che ogni evento successivo si incaricò di confermare e rafforzare, con l’acme (anzi, il fondo) nelle scellerate celebrazioni all’immediata vigilia della partita con il Lecce che nel 1986 tolse alla Roma uno scudetto che era già stato stampato sulle bandiere, proprio come s’era fatto per la coppa solo due anni prima.

  

In gergo locale si chiama “mai ’na gioia”: è la pietra angolare delle convinzioni giallorosse scaturite a quel tempo, che negli anni si sono organizzate intorno alla corrente filosofica nota appunto come “mainagioismo”. Il mainagioismo ha progressivamente sovrastato la retorica antica della squadra testaccina e stradaiola, ha oscurato e intristito la memoria giocosa della Roma brasileira di Falcao e Cerezo, e ha poi lungamente convissuto col mito del tottismo alimentandone anzi una componente: il campione tanto più grande in quanto, pur potendo andare ovunque nel mondo a cercare gloria e trionfi, ha deciso di rimanere a casa per condividere la sorte della sua grande famiglia di tifosi, i loro rari momenti belli e i loro molti momenti bui.

  

L’intera storia della Roma è un saliscendi di vette di entusiasmo che preparavano abissi di depressione, anche nelle stagioni più ordinarie 

Ora il mainagioismo è duramente contrastato dalla gestione americana della società, impregnata di vitalismo, ottimismo e positività e soprattutto consapevole che malinconia e fatalismo non si vendono bene nell’epoca del calcio globale. Il business che deve fare grande la Roma sui mercati asiatici e americani non contempla i momenti di riflessione sui rigori dell’Olimpico, stadio anzi da abbandonare prima possibile. Non sarà sfuggito che all’indomani della vittoria sul Barcellona e del sorteggio di Nyon, mentre l’universo romanista si girava a guardare indietro di trentaquattro anni, il presidente Jim Pallotta ancora umido di bagno nella fontana salutava l’imminente “derby di Boston” (il Liverpool è una proprietà Usa imparentata con quella romanista): pensiero simpatico ancorché del tutto incongruo, l’ultimo aspetto delle semifinali che potrebbe interessare perfino al più filoamericano dei tifosi giallorossi.

  

In realtà, molto più di quanto non possano fare Pallotta e i suoi bravi manager, il mainagioismo nato sotto i riflettori della lunga notte dell’84 sta già arretrando di fronte al ricambio generazionale della tifoseria e a quella sorta di gentrification degli spalti che obbliga i romanisti di tradizione a sedersi affianco a orde crescenti di giapponesi, coreani, americani, svedesi, russi, egiziani (quando c’era Salah), indiani, sauditi. E’ il calcio globale, appunto: benvenuta e necessaria iniezione di notorietà, simpatia, soldi, che lascia il tifoso ordinario frastornato e incerto fra la soddisfazione e il fastidio, ma in ogni caso impossibilitato a scambiare pronostici nefasti con vicini di posto sempre entusiasti, sorridenti, ottimisti nella loro beata ignoranza di quanto dica male alla Roma, di quanto le abbia sempre detto male, di quanto non potrà che dirle male per l’eternità.

  

Il pessimismo, va da sé, è solo una faccia del grande amore che avvolge la Roma e che non smette di stupire e affascinare, nel suo essere così assoluto e incondizionato, qualsiasi giocatore venga a lavorare dalle parti di Trigoria. Del resto “mai ’na gioia” è un concetto che può essere pensato solo da chi invece in realtà sa benissimo che cosa sia una gioia, per averne provate. Quando si ricorda il leggendario silenzio del deflusso dall’Olimpico la notte del 30 maggio 1984, non bisogna dimenticare che nella stessa città riecheggiavano ancora i colossali festeggiamenti dell’estate dell’82 (per la vittoria dei Mondiali) e dell’estate dell’83 (per la conquista dello storico secondo scudetto): per lunghissimi mesi si era vissuti nell’idea che il calcio fosse una fonte di inesauribile e inevitabile contentezza. I muri dei quartieri e delle periferie ne portavano (a alcuni ne portano) ancora i segni. Quella sera dunque non morì solo l’illusione di aver già vinto l’irraggiungibile Coppa dei campioni, ma anche l’idea che la straordinaria macchina da calcio allestita da Dino Viola e Nils Liedholm avrebbe garantito al popolo felicità duratura e permanente.

   

Accadde l’opposto, e anche se il tifoso romanista prova solo affetto e gratitudine verso ognuno dei giocatori di quella sera e di quegli anni, tanti fili di sottile e in genere silenzioso rancore si sono diramati dalla sconfitta. Alcuni più o meno pubblici, come quelli legati alle liti del dopopartita nello spogliatoio della Roma. Altri privatissimi (come il mio, particolarmente assurdo e infatti inconfessato, verso l’amico del tempo col quale decisi di andare nel settore distinti, pur avendo già allora un posto in tribuna stampa: scelta dell’ultimo minuto alla quale non ho mai smesso di attribuire la conseguenza stratosferica di aver fatto perdere la Coppa alla Roma, salvo scaricarne vigliaccamente la responsabilità su di lui, del tutto ignaro e innocente. Sta di fatto che pochissimo ci vedemmo, da allora, e assolutamente mai più parlammo di quel trauma vissuto insieme: l’ostinato silenzio di chi c’era, l’assenza a quanto ne sappia di racconti e memorie, sono assai significativi della percezione del dramma e del bisogno di seppellirlo).

  

Il mainagioismo è duramente contrastato dalla gestione americana della società, piena di vitalismo, ottimismo e positività 

Naturalmente il filo di sofferenza più spesso, l’unico veramente drammatico, fu quello che si dipanò nell’esistenza di Agostino Di Bartolomei, il capitano di quell’epopea, forse il più amato e sicuramente il più stimato dei giocatori della Roma. Per quanto poco o nulla si possa dire o pensare di chi decide di togliersi la vita, per i suoi inconoscibili e indiscutibili motivi, il fatto che Di Bartolomei se ne sia andato esattamente nel giorno del decimo anniversario della finale perduta suggerisce che il passato può fare davvero molto male al presente e può perfino impedire il futuro. Consapevole di questo, Luca Di Bartolomei in questi giorni è stato bravissimo nel tenere la memoria del padre distante dalle rievocazioni e dalle futilità della cronaca. E da solido romanista del presente ha cancellato ogni tentazione di mainagioismo dicendosi sicuro di una cosa peraltro ovvia, e cioè che quando la Roma di Eusebio Di Francesco affronterà il Liverpool neanche una vaga ombra di passato aleggerà sopra i suoi giocatori. Che non sono solo professionisti – alcuni inevitabilmente di passaggio a Roma, come tutti i professionisti per quanto la retorica li pretenda intrisi di storia e sangue giallorossi – ma si sono anche dimostrati più forti e convinti dei propri tifosi, e delle idiosincrasie dei propri tifosi.

  

Comunque finisca l’avventura in questa Champions League, infatti, oltre che alle statistiche della Roma toccherà rimettere mano anche alla filosofia del romanismo. Due categorie fondamentali del pensiero giallorosso, fra loro strettamente intrecciate, rischiano di finire in archivio: l’ineluttabilità e il miracolo. Insieme si tengono e fin qui si sono sempre tenute: è ineluttabile soccombere sotto sei o sette gol di fronte alle grandi squadre europee, poi fai il miracolo e batti il Real Madrid al Santiago Bernabeu (accadde nel 2008); è ineluttabile lo scudetto alla Juve, sicché batterla e vincere al suo posto per due volte negli ultimi 35 anni ha del miracoloso (anche se invece si trattò sempre di netta superiorità sportiva); ineluttabile era il declino agonistico di Totti, furono sovrannaturali le cose che riuscì a fare in campo nell’aprile del 2016, alla fine del campionato che avrebbe dovuto essere (e non fu) il suo ultimo.

  

In linea con questa corrente di pensiero, quest’anno apparivano ineluttabili prima la rapida esclusione nel girone della Champions League, e poi ovviamente l’eliminazione a opera del Barcellona, fino al punto che giornalisti esperti avevano suggerito di privilegiare le partite di campionato mandando le riserve a giocare contro Messi e Iniesta. Non la soluzione, ma almeno la premessa era condivisa dalla totalità della tifoseria. Poi invece non solo l’ineluttabile s’è capovolto, ma questo non è affatto accaduto grazie a un miracolo, a circostanze ultraterrene alle quali pure i tifosi s’erano appellati, bensì a un sistema di gioco particolarmente adatto alle gare europee, a una “normale” superiorità tattica e agonistica e a una freddezza e lucidità che non sono mai state virtù romaniste. Un effetto della novità già si avverte, se è vero che adesso la doppia semifinale è attesa ovviamente con enorme pathos, ma senza aspettative palingenetiche, senza paure indomabili, senza attribuire al risultato il valore di un evento che cambia la vita (quello che potrebbe eventualmente accadere dopo qui non viene ovviamente neanche preso in considerazione: c’è un limite alla razionalizzazione).

   

Il filo di sofferenza più spesso, l’unico veramente drammatico, fu quello che si dipanò nell’esistenza di Agostino Di Bartolomei

Ecco, per quanto sia merce rara nel calcio in ogni angolo del mondo, una percentuale accettabile di razionalità nel vivere e valutare le vicende romaniste è l’obiettivo che ogni allenatore della Roma ha sempre sognato, e sul quale invece sono tutti sempre caduti. Le immagini iconiche di questa lotta impari sono i nordici Liedholm e Capello, fisicamente travolti dalla folla entrata in campo non un minuto dopo ma alcuni minuti prima che le loro rispettive squadre vincessero gli unici due scudetti del dopoguerra. E se qui siamo all’esagerazione accettabile, il problema è che l’intera storia della Roma è un saliscendi di vette di entusiasmo che preparavano abissi di depressione, anche nelle stagioni più ordinarie, sicché la “normalità” di una società che si colloca regolarmente ai vertici del calcio nazionale e compete senza eccessivi batticuore con le grandi d’Europa è vista con stupore, perfino con un po’ di sospetto laddove implica scelte subordinate al business in ogni settore: dal calciomercato alla politica del marketing, dai prezzi dei biglietti fino alla complicata operazione del nuovo stadio di Tor di Valle.

     

I tifosi non hanno mai condiviso fino in fondo la passione che la proprietà americana ha messo nell’operazione “stadio di proprietà”, giudicata generalmente un diversivo rispetto al ben più cruciale e strategico investimento per un buon terzino destro. Chiaro che Pallotta sia uomo di affari, a questi si dedica, ed è per questo che spende in Italia. Ma un minimo di oggettività (di nuovo, merce rara) richiederebbe ammirazione per chi da sei anni tiene il punto di un’avventura imprenditoriale che sarebbe normale in ogni città d’Europa e invece a Roma ha dovuto sfidare gli sbalzi d’umore e di interesse di tre sindaci, un commissario prefettizio, quattro governi e una miriade di enti, sovraintendenze, autorità, distretti, municipalità, ognuno con qualcosa da vietare e qualcosa da chiedere.

   

Non è detto che la battaglia epica tra normalità ed eccezionalità si debba chiudere. Rimarrà probabilmente una condizione esistenziale permanente, e c’è anche da sperarlo per non smarrire del tutto la dimensione irrazionale e onirica del calcio. L’importante però è chiudere le ferite, riparare i traumi che incatenano al passato e impediscono di procedere in avanti.

  

Quando, durante le ultime vacanze di Pasqua, sono andato a visitare lo stadio di Anfield Road, non avrei mai pensato di essere lì in veste di avanguardia delle legioni che partiranno per Liverpool il 24 aprile (è così, come nipotini di Cesare, che i romanisti sobriamente si presentano in giro per l’Europa, fin qui con risultati inadeguati al modello storico). Anfield trasmette molto bene il mix tra sapienza imprenditoriale e travolgente passione calcistica e induce nel romanista ammirazione, invidia e rabbia allo stesso tempo. In quell’occasione mi resi conto (dato statistico che non ricordavo perché all’epoca mi appassionavo di partite diverse dal calcio) che prima di quella dell’84 il Liverpool aveva già vinto una Coppa dei campioni all’Olimpico: la loro prima, nel ’77, contro il Borussia Mönchengladbach. Quindi si potrebbe dire che gli Scousers abbiano vinto all’Olimpico più di quanto abbiamo mai vinto noi. Sicuramente, pensano che sia un luogo che gli porta fortuna.

  

A quanto pare, dunque, almeno contro il Liverpool, o si cambia lo stadio o si cambia la storia. E siccome per lo stadio manca ancora del tempo, ecco che senza concessioni alla retorica e all’enfasi, senza alimentare aspettative eccessive e gonfiare troppo l’evento, si può solo concludere che nell’anno domini 2018, sotto la guida del console Di Francesco e del suo luogotenente capitano Daniele De Rossi, agli ordini del generale Edin Dzeko e grazie agli auspici delle divinità di Testaccio, qui a Roma nei prossimi giorni si tratti banalmente, semplicemente, di cambiare la storia.

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